rotate-mobile
Martedì, 16 Aprile 2024
Attualità

Risolto il caso del 'scendi il cane', ecco gli errori linguistici più frequenti

L'INTERVISTA. Il linguista: "Quello che ha fatto opportunamente l’Accademia della Crusca è stato richiamare il valore della variabilità: avere un sistema complesso non significa poter usare ogni espressione in ogni contesto. La Crusca non ha ‘sdoganato’ nulla"

Per chi se lo fosse perso, fra i trend topic di questi giorni, c'è stata una questione legata alla linguistica che pareva sdoganare l'espressione "Scendere il cane" e "Sedere il bambino". Di fatto verbi di moto intransitivi che sono seguiti da un complemento oggetto. 

Il "malinteso" (avremmo potuto scrivere misunderstanding, ma ci abbiamo ripensato dopo l'intervista a Nicola Grandi) è nato dopo che uno degli appartenenti all'Accademia della Crusca (uno dei principali punti di riferimento per le ricerche sulla lingua italiana) ha così risposto ad alcune domande dei lettori proprio su espressioni come "uscire il cane": ammette in usi regionali e popolari sempre più estesi anche l’oggetto diretto e che in questa costruzione ha una sua efficacia e sinteticità espressiva che può indurre a sorvolare sui suoi limiti grammaticali».

Da qui, apriti cielo. Dopo il "dietrofront" dell'Accademia della Crusca, arrivato appunto dopo decine di titoli e commenti, è interessante fare una chiacchierata con un esperto vero di lingua italiana: Nicola Grandi è infatti professore ordinario di Glottologia e Linguistica presso il dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell'Alma Mater Studiorum - Università di Bologna.

Intanto, qual è il suo parere sul caso "scendo il cane" e "siedo il bambino"? L'Accademia della Crusca ha espresso una concessione oppure no? La lingua parlata può di fatto, nel tempo, far apportare delle modifiche grammaticali?

«Intanto direi che l’Accademia della Crusca non può esprimere concessioni. La lingua non funziona in un certo modo perché un’Accademia lo stabilisce. Ciò che governa la lingua è sempre l’uso. Lo scriveva già Orazio: "Multa renascentur quae iam cecidere, cadentque quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus, quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi"[Parole cadute in gran numero rivivranno, parole vive periranno, se lo vorrà l’uso, signore assoluto della lingua, fonte del suo diritto e sua legge.]». 

«L’uso è il signore della lingua»

Continua Grandi: «Il problema nasce dal fatto che lingue come l’italiano, usate da comunità di parlanti molto ampie e diversificate sia socialmente (in cui cioè ci sono persone abbienti e persone che vivono in povertà, in cui ci sono professioni considerate prestigiose e professioni considerate degradanti, ecc.) sia geograficamente ‘proiettano’ sulla lingua questa diversificazione.

L’italiano, che ha pure l’aggravante di essere una lingua piuttosto giovane, non è quindi un sistema monolitico con una grammatica, ma è un sistema di sistemi, ciascuno con la propria grammatica. La lingua che parliamo in contesti formali è diversa da quella che usiamo in contesti informali. E queste due lingue hanno di fatto grammatiche in parte diverse. Per parlare lingue di questo tipo, dunque, non basta conoscerne la grammatica, anzi le grammatiche; serve anche, spesso soprattutto, saper scegliere la forma adeguata al contesto in cui ci troviamo.

Scendo il cane e siedo il bambino: forma scorretta o inadeguata?

Nel caso di scendo il cane o siedo il bambino ci troviamo di fronte a strutture che appartengono a una delle grammatiche che compongono il complesso sistema dell’italiano e delle sue varietà. Questa grammatica viene ‘attivata’ in contesti prevalentemente colloquiali e informali e in una particolare area, che è più o meno quella del Sud. In questi ambiti, forme come scendo il cane sono naturali, comprensibili e frequenti. Il problema nasce quando una forma come scendo il cane è usata fuori dal contesto informale e in un’altra area geografica, dove è meno naturale e frequente. Cioè quando entra in un’altra grammatica.

Io non direi però che in questo caso la forma è scorretta, è semplicemente inadeguata. È inadeguata ad esempio ad un testo scritto e formale. Faccio un altro esempio. Alcuni amici mi salutano scherzosamente con ciao prof. Non ci trovo nulla di strano. Poi capita, raramente per fortuna, che qualche studente un po’ disinvolto apra le sue mail con lo stesso saluto: ciao prof. Ma questo è molto strano. Anzi, sbagliato. Eppure la costruzione linguistica è la stessa. Ovviamente una stessa costruzione non può essere sia giusta che sbagliata. Ciò che la rende giusta o sbagliata è la maggiore o minore adeguatezza al contesto. Ciao prof è inopportuno se esce dalla bocca di uno studente. Invece è del tutto accettabile come saluto scherzoso di un amico.

Una similitudine significativa è quella con l’abbigliamento: se mi presento a un matrimonio in infradito, costume da bagno e canottiera non va bene. Tutti mi guarderebbero e chissà cosa penserebbero di me! Ma se vado in spiaggia in infradito, costume e canottiera nessuno mi dirà nulla. Però sarei al centro dell’attenzione se mi presentassi in spiaggia in giacca e cravatta. Anche in questo caso, nessun abbigliamento è inerentemente giusto o sbagliato. È invece più o meno adeguato alla situazione. Quando mi vesto, apro l’armadio e scelgo il vestito più adatto al posto in cui andrò quel giorno. Quando parlo apro l’armadio della mia competenza linguistica e scelgo l’espressione più adatta al contesto e all’interlocutore. Anche le espressioni linguistiche, come i vestiti, sono soggette a stereotipi e inducono le persone a dare giudizi su di noi. Anche se il proverbio dice il contrario, l’abito spesso fa il monaco. E anche il modo in cui parliamo “fa il monaco”.

Molti dei cambiamenti della lingua in fin dei conti nascono così: un’espressione prima confinata al parlato informale piano piano allarga i proprio ambiti di impiego e fa capolino in situazioni più formali. Se questi sconfinamenti si fanno sempre più frequenti, questa forma progressivamente ci sembrerà del tutto naturale.

Quello che ha fatto opportunamente l’Accademia della Crusca è stato proprio richiamare il valore della variabilità: avere un sistema complesso non significa poter usare ogni espressione in ogni contesto. La Crusca non ha ‘sdoganato’ nulla. Ha solo ribadito la necessità di calibrare le scelte linguistiche rispetto a variabili extralinguistiche. Insomma, per parlare bisogna anche saper scegliere».

La lingua italiana all'epoca delle chat, della velocità, del digitale: cosa stiamo perdendo?  

«Secondo me, dal punto di vista linguistico, non stiamo perdendo nulla. La lingua sta cambiando, ma questo è un fatto naturale e inevitabile: la lingua cambia sempre e cambierà sempre. E da sempre le generazioni più ‘mature’ si lamentano della lingua dei giovani, che sono il motore del cambiamento.

La vera novità del quadro linguistico attuale è data proprio dall’invasione della scrittura.

Quando io avevo 15 anni, scrivevo pochissimo e solo testi formali in contesto scolastico: temi, relazioni, riassunti, ecc. L’unica manifestazione meno formale della mia scrittura erano le cartoline che mandavo d’estate. Quando volevo sentire i miei amici, li chiamavo al telefono, quindi parlavo. O li vedevo. E anche in questo caso parlavo. Oggi i più giovani sono grafomani: scrivono tantissimo. Quando vogliono sentire gli amici, non chiamano o non si vedono: si scrivono. La vera novità è che si è rotto il legame preferenziale tra scrittura e formalità. Oggi si scrivono soprattutto testi informali, quindi testi in cui, lecitamente, si scrive come si parla. Questo di per sé non è un problema. Il problema sorge quando il confine tra formale e informale si attenua e sfuma. Il fatto che oggi la scrittura sia soprattutto informale determina il passaggio di tratti colloquiali anche nello scritto formale. L’uso dello stesso canale di trasmissione favorisce questo sconfinamento (che anni fa era più raro perché la scrittura informale era rarissima). Se consideriamo la grafia, una forma come "xké" in un sms o in un whatsapp va bene. Se la trovo scritta in un compito d’esame non va bene. Ancora una volta, tutto si gioca attorno all’adeguatezza rispetto al contesto. Se ricevo un messaggio sul cellulare in cui è scritto qualcosa come a me questo libro non mi piace non lo correggo di certo. Se una frase di questo tipo compare in un testo d’esame o in una tesi penso di doverla correggere. Ancora una volta, sarebbe come presentarsi al matrimonio in costume da bagno e infradito.
Linguisticamente non stiamo perdendo nulla. Anzi: il nostro sistema si è arricchito di una varietà che prima praticamente non c’era, lo scritto informale.

Stiamo perdendo però il senso delle cose, stiamo perdendo il confine tra formale e informale, ci prendiamo libertà che una volta non ci pendevamo. Il problema è sociale, non linguistico. Oggi ci mettiamo 3 minuti a passare dal ‘lei’ al ‘tu’. Anzi, spesso anche meno: quando si entra in un negozio è raro sentirsi salutare con un buongiorno o un buonasera. Il saluto è quasi sempre ciao, a prescindere da fattori che fino a pochi anni fa erano cruciali (la differenza di età, il fatto di conoscersi o meno, ecc.). Oggi i bimbi danno del tu a maestre e maestri, infermieri e infermiere danno del tu ai malati, ecc.
La lingua è spesso lo specchio della società e riflette abitudini sociali le cui radici non sono nella lingua. Non ha senso prendersela con l’italiano, bisogna prendersela innanzitutto con gli italiani!»

Inglesismi e contaminazioni varie (da PDF "pidieffare" un documento; da "scanner" scansionare; ecc...): quando e come vengono inseriti nella lingua italiana? Qualche esempio?

«Ogni fenomeno di prestito indica una relazione squilibrata tra due lingue: la lingua che presta è sovraordinata, quella che prende in prestito subordinata. Culturalmente, innanzitutto. Ogni prestito è, a suo modo, una manifestazione di sudditanza socio-culturale. Oggi l’inglese concede prestiti, ma ne prende pochissimi. Non stupisce che l’italiano non abbia prestiti dal romani, la lingua dei Rom. Si prende in prestito quando si ha la sensazione, spesso inconsapevole, che l’altra lingua rimandi a un modello socioculturale più prestigioso del nostro. Le battaglie contro gli anglismi sono a volte legittime. Che senso ha Welfare State quando c’è stato sociale? Davvero non c’era un equivalente italiano di Jobs Act? È davvero indispensabile presentare la propria azienda parlando della nostra mission? Queste battaglie però sono perse in partenza perché, come dicevo, il problema di fondo è che noi percepiamo un’inferiorità socioculturale che va oltre la lingua. Non si può difendere l’italiano senza difendere, prima, l’Italia.

Attenzione però: questo non significa essere linguisticamente sovranisti. La contaminazione tra le lingue è inevitabile e naturale. ‘Sana’. Ma un conto è la situazione di computer: in questo caso, un oggetto nuovo si è portato dietro il nome che lo designa (e un equivalente letterale in italiano non c’era). Un altro conto è, ad esempio, Welfare State, che soppianta una forma pre-esistente di fatto equivalente. Come scriveva Machiavelli, “quella lingua si chiama d'una patria, la quale converte i vocaboli ch’ella ha accattati da altri, nell’uso suo, ed è sì potente, che i vocaboli accattati non la disordinano ma la disordina loro, perché quello ch’ella reca da altri, lo tira a se in modo, che par suo”»

Quali sono gli errori grammaticali più frequenti di noi italiani? 

«Gli errori più frequenti e più gravi secondo me non sono grammaticali, ma comunicativi: usare una forma grammaticamente accettabile nel contesto sbagliato. Un errore comunicativo fa più danni di un errore grammaticale. Se uno studente mi scrive ciao prof, forma grammaticalmente corretta, mi fa storcere il naso più che se mi scrive io o al posto di io ho. In questo caso posso sempre pensare o sperare che si sia semplicemente distratto. Se mi scrive ciao prof è difficile pensare a una semplice distrazione: qui c’è proprio un problema di pianificazione.
Se però vogliamo restare su grammatica e ortografia, secondo me gli errori più frequenti sono quelli che violano regole che hanno poco riscontro nella struttura reale della lingua. Ad esempio, in una sequenza come un albero, in cui l’articolo uno diventa un, l’apostrofo non ci va perché siamo di fronte a quello che la grammatica tradizionale definisce troncamento. In un’alba, in cui una diventa un, l’apostrofo ci va: questa è un’elisione. Ecco, linguisticamente in realtà siamo di fronte ad un fenomeno unico: la caduta di una vocale prima di un’altra vocale. Troncamento ed elisione determinano molte incertezze ortografiche: c’è chi scrive un’esempio e chi scrive un esperienza. Molti scrivono qual’è. In questo caso, possiamo dire che la grammatica tradizionale non descrive in modo del tutto fedele il funzionamento della lingua. E che non riflette la grammatica dei parlanti.
In generale, quelli che chiamiamo errori grammaticali sono in realtà timide manifestazioni del cambiamento in atto. L’uso crescente del che polivalente (la ragazza che le ho prestato il libro), di pronomi ridondanti (di questo argomento ne abbiamo già parlato, la vuoi una birra? ci vai a Roma?), ecc. rivelano in realtà la possibile direzione che l’italiano sta prendendo nella sua evoluzione. Se poi, per una volta, posso esprimere un giudizio qualitativo – e come linguista non dovrei farlo – devo ammettere che non riesco a digerire, neppure sforzandomi, il piuttosto che con valore disgiuntivo…»

Nicola Grandi è professore ordinario di Glottologia e Linguistica presso il dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell'Alma Mater Studiorum - Unuversità di Bologna. Attualmente insegna Sociolinguistica, Morfosintassi e Linguistica tipologica. Si occupa di formazione delle parole, di tipologia linguistica e dei processi di ristandardizzazione dell'italiano contemporaneo. Nel 2017 ha vinto, assieme a Francesca Masini, il premio nazionale di divulgazione scientifica ‘Giancarlo Dosi’ promosso dall’Associazione Italiana del Libro, per la sezione ‘Scienze dell’uomo, filosofiche, storiche e letterarie’, con il volume Tutto ciò che hai sempre voluto sapere sul linguaggio e sulle lingue. 

In Evidenza

Potrebbe interessarti

Risolto il caso del 'scendi il cane', ecco gli errori linguistici più frequenti

BolognaToday è in caricamento