“Piangere è un artificio” di Cantharide
Un’attrice insonne in una notte di luna piena scivola nei ricordi esaltanti di un presunto, luminoso passato e nelle evocazioni di Salomè e Erodiade, da cui è liberamente tratto
Accade così, passano gli anni, ma i ricordi riaffiorano, si mescolano a fantasie recondite e a quelle notti di voci minacciose e di corpo aspirato dalla paura. Accade con leggerezza che l’amore tra madre e figlia generi il desiderio di morte. I ricordi da attrice rivelano uno stato di intermittenza.
In scena, due creature intrecciate, attraversate da ombre.
La lingua di Erodiade è quella dei ricordi, delle ombre, di chi è stato, delle battaglie familiari, è la lingua che ha limato il suo volto e che domina il corpo della giovane figlia. Si deve deturpare per essere Erodiade? Cosa deve fare con la sua faccia? È un’immensa e sanguinosa nevicata, la madre non è più Erodiade e nemmeno la sua parola. È l’umana bestemmia, l'inesistenza, la cenere, il niente.
È una notte di luna piena. La notte è il tempo che non dorme, e mille e una notte, e la voce disumana, e
c’è una luna e trame di voci che chiamano sangue. Poi ci siamo noi, poco regali, tanto goffe, con la
nostra anima, oltraggiata da tante ombre e colpi bassi.
Le due attrici preferiscono non raccontare nei dettagli la storia di quello che accadrà in scena; piuttosto cercano di dare alcune suggestioni, restituire un clima, sperando poi di creare quella fiducia che nell’atto teatrale porterà lo spettatore a vivere insieme a loro l’esperienza, dando a ciascuno la possibilità di porsi delle domande per un confronto vivo, tra persone presenti, preziosa qualità che solo l’arte del teatro possiede.
Prendendo spunto dal binomio Erodiade-Salomè, hanno cercato così di esplorare la fragilità dell’immortalità umana da un punto di vista drammaturgico e scenico confrontandosi con Salomè, quella “vecchia madre che ci portiamo dentro” con i mai morti testi e immaginari iconografici della classicità