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Giovani che si isolano dalla società: cosa è la sindrome 'Hikikomori'

Crescono ragazzi e ragazze che scelgono di non avere rapporti con il mondo esterno e si chiudono in camera in uno stato di auto-clausura. Il periodo più a rischio? L'inizio o la fine delle scuole superiori

Uno stato di completo ritiro sociale. È così che lo psichiatra giapponese Saito identificò la condizione degli "hikikomori" (termine che in giapponese significa "stare in disparte") ovvero di quei ragazzi, soprattutto adolescenti, che si isolano nella loro stanza, rinunciando a relazionarsi con il mondo esterno.

In Italia il fenomeno non è molto conosciuto ma si sta diffondendo progressivamente. L'Emilia-Romagna e' una tra le prime regioni ad aver condotto uno studio su questo fenomeno: "Adolescenti eremiti sociali" realizzato dall'Ufficio scolastico regionale ha rilevato 346 casi (164 maschi, 182 femmine), segnalati dalle scuole.

"Avere un figlio hikikomori è una sfida difficile per i genitori, richiede un impegno quotidiano, soprattutto psicologico, che spesso necessita di un supporto mirato", dice Anna Ancona, presidente dell'Ordine degli psicologi dell'Emilia-Romagna. Come precisa l'Ordine degli psicologi, in Italia l'identikit dei ragazzi hikikomori è quello di un giovane tra 13 e 25 anni, di famiglia benestante, spesso figlio unico di genitori separati.

In molti casi si tratta di ragazzi senza problemi di rendimento scolastico. "L'isolamento è una modalità difensiva psicologica, messa in atto volontariamente e in modo consapevole per far fronte alle eccessive aspettative sociali tipiche della società odierna, sempre più caratterizzata da una esasperata competizione, tesa a rincorrere e superare l'altro". La camera diventa quindi il "rifugio dove salvaguardarsi dal sentimento della vergogna che nasce dal timore di non essere all'altezza delle aspettative".

La sindrome di hikikomori non è riconosciuta come malattia, è un disagio che se non curato può portare a una situazione patologica. Spesso viene scambiata erroneamente con altre psicopatologie come la dipendenza da Internet, la depressione, la fobia sociale, "queste, dopo un lungo periodo di isolamento, possono manifestarsi, ma sono l'effetto non la causa".

Le cause del fenomeno sono diverse, ma il denominatore comune è dato dall'isolamento, dovuto soprattutto al confronto con l'altro, che può durare mesi o anni, e dal fatto che è una condizione che non si risolve da sola. "L'inizio e la fine delle scuole superiori sono i momenti più a rischio perché i ragazzi si devono confrontare con contesti nuovi e sono messi alla prova dal punto di vista psicologico".

Il primo allarme può essere rappresentato dalle frequenti assenze da scuola, dall'inversione del ritmo sonno-veglia, dalla preferenza per le attività solitarie. "Sono i genitori a chiedere l'intervento, che avverrà nelle forme e nei modi che ciascun psicologo riterrà opportuno, compresa la possibilità di recarsi a domicilio- spiega Ancona- il ragazzo non vede il motivo di chiedere aiuto allo psicologo: a suo dire sta bene, avendo eliminato all'origine le fonti del proprio disagio".

La presa in carico psicologica di una persona che "decide di autoescludersi è un lavoro complesso e delicato- aggiunge Ancona- condurre il ragazzo fuori casa non deve essere l'obiettivo principale della relazione terapeutica, inizialmente è fondamentale stare insieme a lui, entrare nel suo mondo per favorire, rispettandone i tempi e attivandone le risorse, un cambiamento a livello del pensiero e dell'azione. L'accompagnamento verso il mondo esterno può avvenire solo successivamente - conclude - quando il giovane sarà in grado di affrontare progressive esperienze relazionali che ne favoriscano lentamente il reintegro nella società".(Dires - Redattore Sociale) (Rer/ Dire)

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