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Gianluca Notari

Collaboratore Cronaca

Mihajlovic e gli altri, esiste una giusta narrazione della malattia?

Condividere o meno la propria condizione fisica può essere una scelta personale e a volte una costrizione data dalle contingenze. Ma non esiste il modo giusto per raccontarla o non raccontarla

Partirei dicendo subito una cosa: non esistono modi giusti o sbagliati per dichiarare o non dichiarare la propria malattia. La malattia, come avvenimento che colpisce un singolo prima e la comunità attorno a lui poi – che sia la famiglia o la schiera di fan – è uno dei temi più delicati che si possano trattare. Nell’Antropologia moderna, ad esempio, se ne parla spesso in relazione al contesto a cui fa riferimento, ponendo l’accento su disagi tipici di una specifica regione o popolazione. La malattia è lo spazio privato per eccellenza: riguarda solo la persona e il suo corpo, le sue sensibilità e le sue percezioni. Nulla di più. 
Sui social al giorno d’oggi, invece, se ne parla tanto, forse troppo, se ad esserne colpito è un personaggio noto, dimenticando spesso e volentieri il contesto con cui ci si interfaccia. 

Condividere la malattia: il caso di Fedez

Rispetto a quanto detto poco sopra, nella narrazione attorno ad un personaggio noto ci si dimentica troppo spesso che i vip sono praticamente obbligati a rendere di dominio pubblico la propria condizione fisica. Prendiamo in esame il caso di Fedez: il cantante e sua moglie Chiara Ferragni hanno negli anni costruito una specifica brand identity legata indissolubilmente alla massiccia presenza sui social network da cui addirittura è stata ideata una serie tv. Senza considerare per il momento la sua volontà, sarebbe stato davvero difficile per lui sparire dalla scena da un giorno all’altro. Ma io credo che a sorprendere i suoi followers sia stata soprattutto la straordinaria intimità del video in cui Fedez ha annunciato di essere affetto da una malattia: “Quando ho scoperto quello che ho scoperto leggere le storie di altre persone mi ha dato conforto. In futuro vorrò raccontare questa mia nuova avventura, perché se il mio racconto potrà dare conforto anche a solo una persona mi farà pensare che questa parentesi della mia vita avrà avuto un senso. Cosa che adesso non riesco a dare. Solo ora mi rendo conto dell'importanza di essere riuscito anche solo a strappare un sorriso a chi sta dall'altra parte dell'apparecchio. Perché quest'album condiviso potrà magari strappare un sorriso anche a me”. Dalle parole del cantante milanese trasuda vivida la necessità di percepire la comunità presente attorno a lui e alla sua famiglia. Contrariamente alla narrazione corrente, i social in questo caso sono visti come un incredibile fattore di aggregazione che non divide ma che unisce, anche nel dolore.

La malattie e il guerriero Mihajlovic

Un altro per cui sarebbe stato impossibile nascondersi è certamente Sinisa Mihajlovic, allenatore del Bologna. Già colpito da una leucemia mieloide acuta nell’estate del 2019, il mister rossoblù pochi giorni fa ha convocato una conferenza stampa in fretta e furia per annunciare, nuovamente, che dovrà assentarsi dai campi per un po’: “Stavolta invece che in tackle giocherò in anticipo”. Di lui si è sempre parlato come un guerriero: sulla stampa, sui social, da lui stesso. Questo modo di raccontare un momento delicato come quello della malattia ha fatto storcere il naso a parecchi, e anche a me non piace: utilizzare della retorica da battaglia non è l’unico modo di cui poter parlare di una malattia. C’è chi non riesce a gonfiare il petto davanti ad un avversario tanto temibile, c’è chi ha paura, c’è chi si lascia andare. E non c’è vergogna in questo. Ma ci tengo a sottolineare ancora che, al di là delle proprie sensibilità, non esiste un modo giusto o sbagliato per raccontare e raccontarsi nella malattia.

Mihajlovic: "Mi devo fermare, rischio ricomparsa leucemia"

Se a Mihajlovic persona, al suo personaggio pubblico e alla gente che fa il tifo per lui questa narrazione piace e dà forza, allora viva i guerrieri. Se parliamo poi di ricezione, e cioè di come le persone reagiscono alla notizia della malattia, il caso del mister è forse uno dei più positivi da raccontare: eventi come la nota processione a San Luca rafforzano il sentimento di comunità già presente nei tifosi bolognesi e da questa forza nasce ulteriore forza che non può che far bene a chi più ne ha bisogno in un momento fragile come quello della degenza. 

Reagire alla malattia

E ancora: sarebbero (purtroppo) tantissimi gli esempi da portare per sostenere una qualsiasi tesi riguardo al dichiarare o al non dichiarare la propria malattia. C’è chi come la giornalista Francesca Del Rosso, sotto lo pseudonimo Wondy, ha aggiornato per anni un blog raccontando continuamente il suo rapporto con il cancro; chi ne ha tratto forza, facendo della lotta contro il cancro la sua ragione di vita, come il ciclista Lance Armstrong, chi l’ha presa con ironia come Emma Bonino, la quale dichiarava che “preferiva morire malata invece che sana”, e chi invece ha preferito un profilo basso come il compianto Fabrizio Frizzi.

Semplicemente, non esiste un modo corretto per dire, sentire, raccontare la malattia. La malattia fa schifo, sempre e a tutti, ma finché non ci riguarda personalmente forse sarebbe opportuno concedere spazio alla sensibilità di chi ne viene colpito. Per chi è malato, parlare potrebbe rappresentare un gesto vitale. Per noi no. 

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