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A Bologna quel De Chirico che non ti aspetti | FOTO-VIDEO

La sezione "barocca" con quel colore ad olio pastoso e intenso, gli autoritratti e i ritratti: sorprendente e inattesa. Presente tutta l'innovazione della pittura metafisica di cui fu maestro

Due stagioni di Giorgio De Chirico in mostra a Bologna, a Palazzo Pallavicini, curata da Elena Pontiggia e Francesca Bogliolo e organizzata da Pallavicini srl. La prima è quella cosiddetta "barocca" e la seconda è quella che abbiamo imparato sui libri di storia dell'arte: la neometafisica (quella dei manichini, per intenderci, di cui è il maestro). Una visita in anteprima, la mia (la mostra apre il 13 ottobre 2022 e si chiude a marzo 2023), che mi ha colto un po' di sorpresa grazie a quella sala di benvenuto che probabilmente rappresenta quell'oltre che si legge nel titolo: “De Chirico e l’oltre. Dalla stagione «barocca» alla neometafisica (1938-1978)”. Sto parlando della sezione "barocca" (dal 1938 al 1968).

In questo periodo De Chirico, che nel 1939 lascia Parigi e torna in Italia, dividendosi fra Milano e Firenze, prima di trasferirsi definitivamente a Roma, si ispira a Rubens e ai grandi maestri del calibro di Dürer, Raffaello e Delacroix. Le sue opere, che non sono realiste, vogliono creare un mondo ideale e irreale, una finzione più vera del vero: “noi amiamo il non vero”, e ancora “la realtà non può esistere nella pittura perché in generale non esiste sulla terra”, scrive lo stesso de Chirico.

Le opere “barocche” dietro il loro apparente naturalismo sono ancora meta-fisiche (lett. “al di là della natura”), rappresentano una metafisica della natura, ovvero, una natura che in natura non esiste. In mostra sono presenti una serie di importanti autoritratti, come il famoso Autoritratto nudo del 1945 e l’emblematico Autoritratto nel parco con costume del Seicento del 1956. Qui l’artista indossa abiti antichi e si misura con i maestri del passato, dichiara la sua distanza dalla modernità e rifiuta i dogmi del Novecento, rivelandosi come primo artista post-moderno. Sono esposte anche altre opere fondamentali della stagione “barocca”, come Natura morta ariostesca, 1940; La pattinatrice, 1940 (il ritratto della moglie Isabella come allegoria dell’inverno); la terracotta Bucefalo, 1940 (uno dei primi esempi di de Chirico scultore); la serie di Villa Medici (esposta nel 1945 alla Galleria San Silvestro).

Giorgio De Chirico: la mostra a Palazzo Pallavicini

La mia colonna sonora mentre visito la mostra: 

Io so' De Chirico
dico in senso simbolico
c'ho un controllo diabolico
quasi artistico
del mio stato psicofisico
e se hai capito, mo' traducilo

("Testardo" di Daniele Silvestri)

Una volta metabolizzata la sorpresa di un De Chirico che non mi aspettavo (mea culpa!) entro dritta nel mondo che tutti attribuiamo al pittore e poeta, quello delle opere metafisico. Siamo nella stagione neometafisica relativa al decennio 1968-78, in cui de Chirico ritorna a dipingere gli emblematici manichini, le Piazze d’Italia e altri enigmi, con nuove elaborazioni e invenzioni. È evidente un mutamento di motivi e di significato rispetto alla visione nichilista degli anni Dieci. Reinterpreta con ironia e in forme più serene i temi del passato che si arricchiscono di colori più accesi, comun’accentuata ironia e di toni giocosi, anche se non manca qualche malinconia. Alla pittura pastosa della stagione “barocca” (tanto olio), sostituisce una pittura fondata sul disegno e sulla costruzione nitida delle forme e la mostra documenta questa stagione ultima dell’artista con alcuni capolavori come Ettore e Andromaca, 1970; Il sole sul cavalletto, 1973; I bagni misteriosi, 1974; Le muse inquietanti, 1974; Visione metafisica di New York, 1975. 

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INV 138 - Le muse inquietanti, 1974, olio su tela, 65x50 cm, firmata "g. de Chirico" 1924 © Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, Roma, © Giorgio De Chirico by SIAE 2022

E poi c'è il volto di una donna che ritorna. E' quello di Isabella Pakszwer, seconda moglie di Giorgio De Chirico. Eccola, nelle sue tante versioni di sè, definita da molti non solo musa, ma anche manager del pittore. 

Isa, musa e moglie di Giorgio De Chirico

La bio di Giorgio De Chirico: per saperne di più su vita e carriera artistica 

Giorgio de Chirico nasce nel 1888 a Volos in Tessaglia, da Evaristo e Gemma Cervetto. Nel 1891 nasce il fratello Andrea, il futuro Alberto Savinio. De Chirico compie gli studi a Volos e al Politecnico di Atene. Nel 1906, dopo la morte del padre, si trasferisce a Monaco, dove studia fino al 1909, quando si sposta a Milano. Nel marzo del 1910 si stabilisce a Firenze ove nell’estate-autunno dipinge le prime opere metafisiche. Nel 1911 si trasferisce a Parigi ed espone per la prima volta le sue opere metafisiche al Salon d’Automne del 1912. Conosce intanto Apollinaire, Picasso e il suo primo mercante, Paul Guillaume. All’entrata in guerra dell’Italia è destinato a Ferrara, dove nel 1917 è ricoverato all’ospedale militare di Villa del Seminario. Nel periodo Ferrarese dipinge i primi Interni metafisici e il famoso dipinto Le Muse inquietanti. La sua metafisica influenza profondamente i surrealisti, che, tuttavia, lo disconoscono, non accettando la produzione artistica del Maestro successiva al 1918. Nel 1919 si trasferisce a Roma, dove collabora alla rivista “Valori Plastici”. Nel 1925 si stabilisce nuovamente a Parigi con Raissa Kroll, cui resta legato fino al 1931, quando si unisce a
Isabella Pakszwer. Nel 1936-1937 vive a New York. Nel 1938 rientra in Italia e si stabilisce temporaneamente a Milano, per poi trasferirsi a Parigi e a Firenze durante gli anni della guerra. A partire dallo stesso periodo dà vita alla sua stagione “barocca”, ispirata ai
grandi maestri del passato, quali Rubens, Tintoretto, Delacroix e Renoir. Nel 1944 si stabilisce definitivamente a Roma. Tra il 1968 e il 1978 dà vita a una reinterpretazione della metafisica, in chiave ludica, luminosa ed innovativa. Giorgio de Chirico scompare a Roma
nel 1978. Dal 1992 le sue spoglie riposano nella cripta della chiesa di San Francesco a Ripa Grande in Trastevere, prima chiesa francescana a Roma.

La guida completa alla mostra di De Chirico 

De Chirico e l’oltre. 
Approfondimenti su alcune opere in mostra.
Autoritratto nel parco con costume del Seicento, 1959
Durante la stagione “barocca” la pittura, per De Chirico, coincide più che mai con la sapienza del mestiere, cioè con una nozione classica dell’arte che il Novecento, se si esclude il periodo del Ritorno all’ordine e qualche altra eccezione, ha sempre rifiutato. Così quando l’artista si ritrae in vesti antiche, come in quest’opera, non solo asseconda il suo interesse per una decorazione esuberante, per la bellezza di vesti non consuete e banali, ma dichiara anche tutta la sua distanza dal suo tempo, tutta la sua non appartenenza al moderno. De Chirico, in questo senso, è il primo postmoderno e rifiuta i dogmi e i protocolli stessi del Novecento.

Autoritratto con corazza (o con manto rosso), 1948  
Questo autoritratto si ispira al Retrato de Felipe IV en armadura, 1626-28, di Velázquez ora al Prado. Ne riprende quasi testualmente, anche se con un segno più rapido, la corazza a giunzioni attraversata da punti di luce, e l’andamento diagonale del drappo rosso, mentre la rigida gorgiera è sostituita da un più molle colletto bianco.
Nelle Memorie De Chirico ha accennato all’attrazione che provava per i costumi antichi del Teatro dell’Opera a Roma, di cui si era servito per dipingere altri autoritratti. Ha anche ricondotto il suo interesse per i vestiti dei secoli passati alla loro fastosità: “Spesso qualcuno mi domanda perché mi ritraggo sempre vestito con costumi antichi. Alcuni credono che lo faccia per vanità. Lo faccio semplicemente perché gli abiti di una volta erano molto più ricchi, colorati e belli degli abiti moderni”. Tuttavia, la corazza non sembra solo un elemento decorativo e può simboleggiare anche uno stato di belligeranza, evocando le tante polemiche dell’artista e, per contro, la sua necessità di difendersi dagli innumerevoli attacchi della critica.

Autoritratto nudo, 1945
L’opera è una prima idea, o una diversa versione, dell’Autoritratto nudo, esposto per la prima volta alla Galleria il Secolo di Roma nel maggio 1945. L’Autoritratto nudo è anzi il dipinto che solleva maggior sorpresa di tutta la mostra e, forse, di tutto il periodo. In realtà de Chirico non aveva nessuna intenzione di dare scandalo (anzi, quando presenterà il quadro a Londra nel 1949, gli aggiungerà prudentemente un perizoma, che compare anche in questa versione dell’opera). Nell’aprile 1945 aveva scritto: “Il corpo umano è per noi uomini la forma giunta al suo più alto grado di sviluppo e infatti un bel corpo è uno dei capolavori della natura”. Qui invece esibisce una figura non più giovane e (a dispetto delle sue dichiarazioni di poetica), non “bella” nel senso classico del termine: una sorta di laico Ecce Homo che esprime una condizione di indifesa precarietà.

Ritratto di Isa con la pelliccia di leopardo. La pattinatrice, 1940
Il Ritratto di Isa con la pelliccia di leopardo (non di giaguaro, come a volte è stata intitolata, perché non ci sono macchie nelle rosette) è esposto per la prima volta nell’aprile 1940 a Torino.  La pelliccia di leopardo era uno status symbol ancora diffuso in Italia alla fine degli anni Trenta, anche se il regime cercava di promuovere i più autarchici capretti di Asmara o i conigli tinti a macchie leopardate. A de Chirico però non interessava lo sfoggio di un emblema borghese, tanto meno un motivo realistico o una “scena di vita moderna” alla maniera degli impressionisti. Il motivo della pelliccia poteva piacergli, piuttosto, perché gli ricordava le tante figure bardate di ermellino della pittura cinquecentesca, da Veronese a Tintoretto, da Tiziano a Paris Bordone, ma anche al Rubens del Seneca impellicciato di Palazzo Pitti, o delle scene di caccia. Soprattutto però era attratto dal segno decorativo della pelliccia: sia dalla linea guizzante, tipica anche del suo amato barocco, sia dalla linea come segmento delimitato, chiuso fra due punti, su cui teorizza in quel periodo. Nella figura immobile si insinua così un dinamismo sottile, dovuto non solo al “puntinismo” del mantello, ma anche alla sua resa nervosa, che contrasta col disegno preciso del volto ed è ripresa dalla stesura a bioccoli del cielo. Sullo sfondo una figura di pattinatrice accentua la dimensione senza tempo dell’opera, che diventa così una allegoria dell’Inverno alla maniera antica, soprattutto fiamminga.

Isa con cappello di piume, 1940
Nel 1940 de Chirico dipinge Le amiche. Le cognate, dove ritrae Isabella accanto a Maria Morino, moglie di Savinio. 
Nel dipinto Isa indossa un cappello dal profilo dorato, ripreso dalla Bambina col cappello profilato, 1881, di Renoir. L’interesse di de Chirico per l’artista francese, di cui amava non il periodo impressionista ma quello ingresiano, è testimoniato anche da Carrieri, che nel 1942 scrive: “Ne è incantato. Le ricerche di Renoir sono le sue stesse ricerche: non coincidono soltanto il rispetto del mestiere e la probità, ma anche le idee”.
In Isa con cappello di piume l’artista isola il particolare del volto della donna, disegnandolo in uno spazio più allargato. La linea lucente sigilla in un ovale i segni della capigliatura e del volto, con un efficace effetto di sintesi. Le piume invece, che nelle Amiche quasi non si vedevano, qui risultano allungate orizzontalmente, accentuando l’accento secentesco dell’immagine. Il cappellino diventa così un motivo antico, una maschera teatrale. 

Natura morta ariostesca, 1940
Quando de Chirico dipinge quest’opera l’Europa è in guerra e si combatte con mitragliatrici e bombardamenti aerei, non certo con loriche e elmi. L’artista ovviamente lo sa, anzi nelle Memorie si sofferma sulla “valanga di armi ed armati” che correvano verso le frontiere, sui convogli ferroviari carichi di truppe e cannoni. Eppure, nelle sue opere di questo periodo non combattono tedeschi e inglesi, ma “cavalieri antiqui” di cui qui vediamo le armi.  “Noi amiamo il ‘non vero’” scrive de Chirico nel 1942. E prosegue: “Noi amiamo tutto ciò che ricorda la nostra vita, ma che ‘non è la nostra vita’; noi amiamo la finzione”. Tutta la sua pittura “barocca” si manifesta come un teatro, anzi un teatro che rappresenta il teatro. Non vuole far dimenticare la finzione, ma accentuarla. Non intende imitare la vita, ma eluderla, rendendola più bella e lontana, inarrivabile. Negli anni Quaranta, mentre la maggior parte dell’arte italiana, da Corrente alla Scuola Romana, muove verso il realismo, de Chirico crea una pittura che nasconde la realtà dietro una maschera. 

Ettore e Andromaca, 1974
Ettore e Andromaca è un soggetto che de Chirico aveva affrontato per la prima volta nel 1917, dandone un’interpretazione tragica. Il canto dell’Iliade, a cui si ispira, descrive l’ultimo incontro fra i due sposi, subito prima che Ettore venga ucciso. Tutta la pagina omerica è percorsa dal sentimento dell’ineluttabilità della morte in battaglia dell’eroe: un tema che de Chirico doveva sentire profondamente in quel 1917, l’anno più terribile – per l’Italia - della Prima guerra mondiale. L’artista insinua anzi nel soggetto una cadenza più drammatica, eliminando la figura del piccolo Astianatte che nel poema portava una nota di tenerezza: i suoi manichini sono celibi, non conoscono connubi e non possono generare nuove vite. La tensione della scena, però, è acuita soprattutto dalla disumanità delle due sagome, dalla loro fisionomia ortopedica, dal loro volto senza occhi.
Nel 1970 riprende ancora una volta il tema, ma lo addolcisce. La mancanza di una prospettiva ripida dà più serenità all’immagine, mentre l’idea della morte si allontana. 

Composizione con agnello (Abbacchio macellato), 1945
Nonostante le apparenze, anche qui de Chirico non ha in mente un motivo verista, ma un dialogo con i maestri della pittura. Si ispira infatti al Bodegon con cortillas y cabeza de cordero, 1812, di Goya, ora al Louvre.
Rispetto al pittore spagnolo de Chirico usa però un segno più analitico, che traduce il motivo delle carni in segmenti e in virgole guizzanti. In Goya l’animale squartato, nella sua cruda evidenza, alludeva alle violenze della guerra civile, mentre in de Chirico i lacerti dell’agnello, mimetizzati nell’ondulazione e nell’approssimazione del segno, con poco contrasto fra toni bianchi e rossi, non hanno riferimenti simbolici. Non a caso dell’animale macellato l’artista eseguirà negli anni Cinquanta anche una versione più schematica e “astratta”, limitata alle sole costole.

Arco con statua nei giardini di Villa Medici, 1945
Nella mostra alla Galleria San Silvestro del dicembre 1945 de Chirico espone per la prima volta il ciclo di quadri sui giardini di Villa Medici, visti di sera, al tramonto, d’autunno, con i tanti pini marittimi amati da Ingres e gli eleganti archi dei padiglioni: tutti temi affrontati senza emotività liriche, ma pervasi, in filigrana, da un ritrovato senso di serenità dopo la fine della guerra. Erano però opere disadatte all’impegno sociale che si cominciava a invocare nell’arte figurativa. Non per niente i critici parlavano, a proposito di quelle opere, di mondanità, di dipinti per ricchi, di eleganza pariolina, di un Seicento cartolinesco. In realtà i lavori di de Chirico nascevano, come sempre, da un’ispirazione tutta interna alla pittura. Nell’Arco con statua nei giardini di Villa Medici dialoga con Velàzquez, che aveva dipinto il quasi simile padiglione con la statua di Arianna addormentata. L’arco, elemento centrale nei dipinti metafisici, qui diventa una serliana che inquadra in una solida struttura architettonica il coriandolio delle foglie. L’artista sceglie però il motivo con la scultura di Venere, probabilmente perché la statua di Arianna di Velàzquez sarebbe sembrata una reminiscenza dei dipinti metafisici a cui non voleva indulgere, in un momento in cui tutti rifiutavano le sue opere recenti, paragonandole a quella irripetibile stagione.
 Il giardino appare in una visione trasognata, abitato solo da una statua, in un’ora assorta. Ai moderni parchi impressionisti, percorsi da giovani a cavallo, signore con l’ombrellino e bambini col cerchio, secondo le abitudini mondane del tardo Ottocento, de Chirico contrappone deserti giardini delle Esperidi, immersi in un silenzio interrotto solo dallo stormire delle fronde e dal chioccolio di una fontana. 

Villa Falconieri, 1945
Quando de Chirico dipinge Villa Falconieri, la villa cinquecentesca, una delle più belle di Frascati, era stata pesantemente bombardata, ma non sono certo i drammi del presente che possono interessare l’artista. Raffigura invece un’ala intatta dell’edificio, che gli ricorda i cipressi dell’Isola dei morti di Böcklin, e la immagina come fondale immobile di una rappresentazione teatrale, disegnando in primo piano due figurette che sembrano le comparse di una commedia. La natura, insomma, non è il luogo di impressioni visive, ma di reminiscenze artistiche, oppure di sensazioni della mente e del cuore, come nei versi di Parfum exotique di Baudelaire, che de Chirico cita a memoria in una lettera al pittore Nino Bertoletti degli inizi di gennaio 1946. “Io vedo un porto colmo di piante e vele/ ancora stanche dell'onda dei mari / che mi entrano nel cuore e mi empiono le nari”. 

Bagnanti con drappo rosso nel paesaggio, 1945
L’artista si riallaccia qui alle Bagnanti sopra una spiaggia, 1934, che aveva esposto alla Quadriennale di Roma dieci anni prima. È un nudo femminile immerso nella natura: un tema classico che nel Rinascimento simboleggiava l’armonia tra l’uomo e il cosmo, la bellezza e la nobiltà del creato. Se però nella Venere dormiente del Giorgione o nel Concerto campestre di Tiziano le dee erano presenze sacrali e non si curavano dello spettatore, qui la figura, che ha il volto di Isabella Far, guarda verso di noi. La simbologia, allora, getta la maschera o, meglio, si rivela come una maschera. Nell’opera non c’è più un significato, c’è solo un significante, un esercizio di linguaggio. Tutto è un gioco concettuale di citazioni. Nel teatro naturale le tre Bagnanti recitano quietamente la loro parte e raccontano solo la continuità della pittura. Allo stesso modo i grappoli, la pera e la mela dovrebbero simboleggiare il rigoglio della natura, ma l’artista è il primo a non crederci: per lui sono solo una “vita silente” (come chiama le nature morte) nel paesaggio.

Ritratto di Isa con testa di Minerva, 1947-48
Nel suo studio de Chirico teneva un busto di Minerva del tipo ad elmo corinzio, o Minerva Giustiniani. Il gesso compare più volte nelle sue opere, come nel Ritratto di Isa con testa di Minerva, datato 1942 nella monografia di Isabella Far del 1968, ma che sembra da posticipare per l’andamento fluido e molle della linea, che si intride di luce. Anche il volto della donna è bagnato di luce, mentre una lieve punteggiatura compone la sua collana di perle, leggere come quelle di Delacroix. Qui la dea Atena sembra avere un significato simbolico, cioè alludere alla sapienza e all’intelligenza. De Chirico in questi anni gioca ad attribuire a Isa riflessioni e scritti filosofici, e li pubblica col nome di lei. Per questo la dipinge assistita dalla dea della sapienza, anzi come se la dea fosse il suo alter ego. Del resto, ritratti e autoritratti con l’enigmatico doppio di una statua figuravano nella sua pittura già nel primo dopoguerra.

Uva nera, pesca e pera, 1947-48
In un articolo uscito sull’Illustrazione Italiana” nel 1942 de Chirico propone di chiamare le nature morte “vite silenziose”, come accade in tedesco e in inglese, perché rappresentano “un’esistenza che si esprime per mezzo del volume, della forma, della plasticità”. Mette inoltre in rilievo nella loro composizione il valore dell’aria: “L’aria fa emergere le cose, addolcisce i loro contorni e, nel tempo stesso, intensifica le loro forme. L’aria è ovunque; deve essere anche ‘dipinta sulla tela’. Dipingere l’aria è molto difficile; dipingere l’aria vuol dire dare una tale plasticità, un tal volume, una tale forza della forma alle cose, che tra un oggetto e l’altro si senta circolare l’aria e che gli oggetti appaiano come sospesi, immobili, ma vivi nell’aria che si sposta”.

Ritorno al castello avito, 1969
Nel ‘69 nasce un nuovo motivo neometafisico. È un’ombra dal profilo seghettato e quasi elettrico, irto come il dorso di un drago, dove il nero risalta contro la luce della composizione. Nel Ritorno al castello avito, che riprende l’affresco di Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini sembra di cogliere, pur nei toni ironici che l’artista non abbandona mai, la consapevolezza di un commiato non lontano. Il cavaliere che torna a casa per sempre è anche lui un’ombra, sulla soglia del discrimine che divide ciò che è da ciò che non è più. Il tema autobiografico del viaggio, fra partenza e ritorno, diventa allora una riflessione sulla vita, un interrogativo sul nostro destino. 
Negli anni Quaranta e cinquanta de Chirico aveva dipinto varie opere in cui un cavaliere errante rientrava nella sua dimora, ma la sua sagoma si allentava nella luce del tramonto, tra le linee molli e liquide del paesaggio “barocco”. Nel Ritorno al castello avito è disegnato invece con linee ben definite, con torri geometriche formate da un insieme di cilindri, piramidi, feritoie rettangolari. Anche la figura sembra ritagliata in una lastra di ferro battuto. De Chirico, insomma, dopo la lunga stagione pittoricistica rubensiana, torna a quello che aveva chiamato il misticismo della linea, al gusto del disegno preciso, che ammirava tanto nei Greci. 

Il rimorso di Oreste, 1969
Anche nell’Oreste ritorna il motivo dell’ombra nera e seghettata. Qui la sagoma scura è una sorta di fantasma, un’ombra di Banco, una personificazione del senso di colpa. Significativo nell’opera è l’uso del nero. Scrive de Chirico: “Queste nuove ispirazioni, e visioni, che dir si voglia, [della neometafisica] si basano su vari elementi, fisici e metafisici. Gli elementi fisici sono una maggior chiarezza nella tonalità generale del dipinto, e l’uso del nero, più abbondante di quanto lo usassi prima. Ho sempre avuto un particolare interesse per il colore nero. Tintoretto diceva che il nero è un colore che nobilita gli altri colori ed io condivido pienamente l’opinione del maestro veneziano”.Interno metafisico con paesaggio romantico, 1968
Un altro motivo nuovo della stagione neometafisica sono le larghe volute, simili a ricci di uno strumento ad arco. Le volute comparivano già in qualche dipinto dechirichiano degli anni Trenta, ma ora acquistano un rilievo maggiore e spiccano in primo piano con tutta la loro incongruenza. Sembrano mettere fra parentesi l’immagine o alludere a un sipario invisibile che si scosta per mostrare la scena, ma in realtà non hanno nessuna funzione. De Chirico ha confessato nei suoi scritti che le squadre lo avevano sempre ossessionato, ma non ha mai detto una parola sulle volute. Anche le sue volute neometafisiche però nascono, se non da un’ossessione, da una suggestione ostinata. Sono forme che si potrebbero definire rococò o barocche in senso lato, ma non hanno più nulla della stagione “barocca” precedente. Sono segni quasi astratti, elementi architettonici staccati dal mondo dell’architettura. Possono ricordare il profilo dei raccordi albertiani, nella parte superiore della facciata di S. Maria Novella, che de Chirico aveva visto tante volte a Firenze durante la giovinezza, ma in realtà sono linee inservibili, puri ritmi geometrici. Suggeriscono un senso di illogicità giocosa, a differenza delle drammatiche opere metafisiche degli anni Dieci: una irragionevolezza ilare, una stranezza avvertita senza sofferenza, appunto come un gioco.

La tristezza della primavera, 1970
Nel gennaio 1969 de Chirico pubblica un articolo in cui riflette “sulla tristezza della primavera e sull' angoscia dell'estate”. Ritrova lo stesso sentimento nelle pagine di De Quincey, Heine, spesso citati nei suoi scritti, e, per la prima volta, anche in d'Annunzio. “Giovanni Episcopo, protagonista di un racconto di Gabriele d'Annunzio, parla anche lui di questa angoscia del cielo estivo, della luce del sole, delle strisce di luce sul muro di una casa o sul pavimento di una camera e dice come in tutti i momenti affannosi della sua vita c'era sempre del sole, una striscia di sole in qualche parte. Più recentemente Vincenzo Cardarelli, nella seconda parte di una poesia intitolata Diario, esprime anche lui questo profondo e misterioso sentimento”.

Il sole sul cavalletto, 1973
Nel luglio 1973 de Chirico acconsente alla richiesta di Franco Simongini, critico e regista televisivo, di farsi riprendere mentre esegue un quadro. Dipinge Il sole sul cavalletto, che termina il 10 luglio, il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno. È una sorta di prova estemporanea a cui pochi artisti della sua fama e della sua storia si sarebbero sottoposti. Alle domande che il critico gli rivolge mentre sta dipingendo dà risposte elusive e paradossali: quando gli viene chiesto che colori usa, per esempio, risponde che adopera quelli a olio perché i colori al burro non esistono… Sono risposte, in realtà, che rivelano molto del suo pensiero: la pittura è tecnica e mistero, qualcosa di cui è inutile parlare perché non c’è altro da dire.  La “performance” comporrà il filmato De Chirico e il sole sul cavalletto, della serie televisiva Come nasce un’opera d’arte (1975).

Il mistero di Manhattan, 1975
Nel 1972 de Chirico è il protagonista della mostra De Chirico by de Chirico, che si inaugura in gennaio al Cultural Center di New York. Per l’occasione l’artista, nonostante abbia già ottantatré anni, affronta il non breve viaggio che lo riporta a Manhattan, dove aveva abitato dal 1936 agli inizi del 1938.  Del suo soggiorno americano rimane un eco in alcune opere successive, come Il mistero di Manhattan, 1973, o Visione metafisica di New York, 1975.  Il primo accosta alla selva dei grattacieli una sorta di “quadro nel quadro” con un volto di Hermes, mentre un mucchio di piccole volute, come monete d’oro, cola lentamente dalla poltrona. Le case a tanti piani, che comparivano nella Composizione evangelica del 1917, si ripresentano in una visione più comprensibile, dove si apre un dialogo tra passato e futuro che esprime un mistero meno allarmante.
 L’arrivo di de Chirico a New York viene festeggiato ufficialmente e il vicesindaco, con un antico gesto onorifico, gli consegna le chiavi della città (ma sembra che l’artista, col suo tono sornione, abbia replicato:” Mi avete dato le chiavi, ma le porte dove sono?”). Durante il soggiorno americano l’artista dichiara in una intervista che i suoi quadri “buoni e cattivi, vecchi e nuovi sono tutti miei figli.” E aggiunge: “Ogni volta che mi ripeto non è una ripetizione ma una variazione”.


Il figliol prodigo, 1975
Il tema del Figliol prodigo è ripreso tante volte dall’artista a partire dal 1917. L’opera non raffigura però la parabola narrata da Luca. O, meglio, attraverso una vaga allusione alla pagina evangelica vuole teorizzare soprattutto il ritorno al mestiere, alle leggi dell’arte, all’esempio del passato. Il padre che riaccoglie il figlio nel suo abbraccio non è un’immagine di Dio come nella parabola, ma dei grandi maestri di ogni tempo e, più in generale, di quella che de Chirico chiama “la divina arte del disegno”, alle cui regole è indispensabile ritornare dopo le sperimentazioni delle avanguardie. Non a caso nelle versioni del quadro dei primi anni Venti il padre ha una fisionomia classica, sia pure pietrificata, mentre il figlio assume le sembianze di un manichino.
Nel dipinto si possono cogliere anche significati diversi, ma sempre estranei al messaggio evangelico. Troviamo nell’opera il tema del viaggio, della partenza e della nostalgia del ritorno, che attraversa tutta la pittura dechirichiana, divenendo quasi una storia della sua vita, oltre che una metafora della vita in generale; il tema della relazione fra corpo e statua, fra esistenza e materia inanimata, fra scorrere del tempo ed eternità; e infine il tema psicologico del rapporto col padre.

Piazza d’Italia con statua di Cavour, 1974   
Ha dichiarato de Chirico: “Esistono le piazze d’Italia, ma le piazze d’Italia come quelle che sono nei miei quadri non le troverete in nessun luogo della terra”. Lo si vede anche in  Piazza d’Italia con statua di Cavour. Qui il marmo dello statista (padre della patria e quindi, nelle opere dechirichiane degli anni Dieci, fantasma paterno, ma anche simbolo dei creatori per eccellenza, cioè degli artisti) non sembra un vero monumento, con quel piedestallo troppo basso, mentre le ombre troppo geometriche degli edifici, la luce irreale, le figure troppo piccole sullo sfondo confermano che non siamo di fronte a un angolo di Torino, Firenze o Roma, ma a un luogo che non esiste. La piazza è l’apparizione di un mistero.

I mobili nella valle, 1968
I Mobili nella valle, 1968, riprendono, con l’aggiunta “pop” del battipanni, gli spaesanti Meubles dans la ville del 1927-28. Ha scritto de Chirico: “È stato notato a volte sotto quale aspetto singolare si mostrino dei letti, degli armadi a specchio, dei divani, dei tavoli quando li vediamo all’improvviso in una strada, in una cornice in cui non siamo abituati a vederli, come succede durante i traslochi, o in certi quartieri, davanti alla porta di negozianti e rigattieri che espongono sul marciapiede i pezzi principali della loro mercanzia. I mobili ci appaiono allora sotto una nuova luce, rivestiti di una strana solitudine; tra di loro nasce una grande intimità, e una strana felicità fluttua nello spazio stretto che essi occupano sul marciapiede, in mezzo alla vita ardente della città e al febbrile va e vieni degli uomini… I mobili, sottratti all’atmosfera delle nostre camere ed esposti al di fuori, risvegliano in noi un’emozione che ci mostra perfino la strada sotto una nuova luce. Ci fanno un’impressione profonda anche i mobili posti in contrade deserte, in mezzo alla natura infinita.”
 

Palazzo Pallavicini (via San Felice): un po' di storia 

Originario del XV secolo e appartenuto a diverse famiglie nobiliari, si sviluppa su una superficie di circa 2000 mq. Ornato da incredibili affreschi e splendidi stucchi, fu ristrutturato nel 1680 e presenta uno scalone monumentale d’ingresso progettato “nei modi dell’architettura senatoria” perfettamente conservato. È stato un’importante corte europea e la dimora del Conte Gian Luca Pallavicini, condottiero e ministro di Carlo VI d’Asburgo e di sua figlia, l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, madre di Maria Antonietta. Nella Saladella Musica, il 26 Marzo del 1770, si esibì un giovanissimo Wolfgang Amadeus Mozart.

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