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Venerdì, 19 Aprile 2024
Cronaca Cirenaica / Via Scipione Dal Ferro

Salute mentale, la testimonianza: "Ho vissuto l'inferno, ma recuperare si può"

INTERVISTA | Nel giorno della Giornata mondiale della salute mentale, la testimonianza diretta che vale di più di mille proclami

È un caldo pomeriggio di ottobre, è giovedì, e via Scipione Dal Ferro è particolarmente tranquilla. Il cielo è sereno, c’è poco vento e il traffico, minimo, scorre lento. Ho appuntamento alle ore 16 con P.  Entrando nello stabile dove lavora la coooperativa si ha la sensazione di entrare in un grande laboratorio di artigianato. Effettivamente, la cooperativa Eta Beta è un laboratorio di artigianato. Dopo il piccolo ingresso c’è un’ampia sala divisa da scaffalature. Ogni spazio ricavato è dedicato a una specifica area: quella del legno, quella del vetro, quella della ceramica. Nel grande parcheggio antistante un ragazzo e una ragazza giocano a frisbee, dentro le persone sono poche e sorridenti. Mi accolgono con calore, così come fa P.

Pamela lavora qui come impiegata amministrativa. Quindici ore settimanali, contratto a tempo indeterminato. Nel 2015 P. ha avuto un ricovero al Centro di Salute Mentale di Bologna. Dopo anni di terapia, che dura tutt’ora,  è riuscita a riprendere in mano la sua vita.

Cooperativa Eta Beta-2

Inferno in Terra

Io e P. ci accomodiamo per chiacchierare in una piccola sala adiacente a quella che ospita i diversi laboratori. Ci sediamo attorno ad un tavolo di legno artigianale. Le mura sono bianche, color guscio d’uovo, che nella mia percezione differisce dal comune bianco perché al suo interno contiene quella punta di giallo che rende il colore finale caldo e accogliente. Pamela forse è un po’ tesa, ma dice di essere contenta di questa intervista. E allora cominciamo.

“Tutto inizia tra il 2013 e il 2014. In quel periodo ho avuto un disagio psichico molto forte. Una psicosi. Il brutto di questa situazione è che fai fatica a parlarne. Nessuno sapeva cosa stessi vivendo, ma dentro di me vivevo in una realtà parallela. Vedevo cose che non c’erano, seguivo un’altra realtà. Sono stati anni molto duri e dopo due anni sono riuscita a chiedere aiuto. Ho parlato prima con il mio medico di base che mi ha indirizzato al CSM (Centro di Salute Mentale, ndr). Qui ho avuto la grande fortuna di incontrare una dottoressa che mi ha aiutato tantissimo. Non è facile trovare persone disposte ad ascoltarti quando stai male. È difficile quando stai bene, figurati quando stai male. L’iter di guarigione inizia quando riesci a fidarti della persona che hai di fronte. Io ci ho messo un anno, in cui ho comunque continuato a stare male”.

Chiedo a P. com’è stato vivere con questo disagio: “Vivi, ci puoi vivere. Anzi, ci puoi convivere. Ma è molto faticoso. Vivi in un inferno, l’inferno in Terra. Non c’è una descrizione esatta che posso dare ma vorrei far capire quanto sia difficile. Non sei guidata da pensieri reali ma da pensieri che non sono reali. È difficile comunicarli all’esterno. La comunicazione è stata uno tra i problemi più grandi. Comunicare con gli altri e sperare che gli altri accolgano il tuo disagio, pensieri diversi, una persona diversa. La difficoltà più grande è questa”.

“I primi tempi sono stata io stessa a sottovalutare il problema, a dirmi ‘sono solo pensieri, passeranno’. Ma c’è un mostro lì dentro ed è la sofferenza. Ma proprio la difficoltà nel comunicare questa sofferenza la rende insopportabile. Solitamente chi soffre è considerato un matto, una persona irrecuperabile e da allontanare. Anche questo è molto discutibile, perché una persona è recuperabile nel momento in cui può avere nuove relazioni. Nel momento in cui non hai nuove relazioni è difficile uscirne”.

Quello che più mi colpisce nel parlare con P. è quanto lei sottolinei la dimensione collettiva. La malattia è un fatto personale, intimo. Lei invece parla sempre di quanto sia importante il contesto in cui si vive e delle persone che l’hanno aiutata durante questi anni: “Ci tengo a dire che da soli non ce la si fa. I risultati arrivano dopo anni, non li vedi subito. Io lì sono stata brava a cogliere le opportunità che mi sono capitate. Ma ripeto: da soli si fa poco. E per quanto brava sia la psichiatra che ti segue, un’ora a settimana – quando va bene – non è abbastanza.
Lei mi ha seguita anche più di quanto dovesse, da San Giovanni in Persiceto venivo a Bologna anche solo per vederla un quarto d’ora. Si era creato un rapporto importante, lei ha creduto in me quando nessuno ci avrebbe mai creduto. Per me è stato importantissimo. Venivo presa sul serio nel momento in cui dicevo cose assurde: dicevo che delle telecamere mi seguivano e che c’erano dei microfoni che mi spiavano. Tutte queste cose però hanno un significato. Quindi trovare qualcuno che si mette lì ad ascoltare e prova a capire è impagabile.
Anche la mia famiglia ha dovuto capire come comportarsi e come muoversi. Senza il loro supporto sarebbe stato difficile uscirne. Anche avere una sicurezza economica è fondamentale. I miei poi non sono particolarmente ansiosi, quindi sembrava tutto sereno. Fossi stata da sola sarebbe stato molto difficile”.                                                                                                                  

Lavoro e salute mentale

A proposito di contesto: come avevo già avuto modo di capire nella conferenza in cui ho conosciuto P., la salute mentale di un individuo proviene principalmente da una quotidianità sicura. Una casa, un lavoro, cose semplici. Ma lavorare quando si soffre nel modo in cui racconta lei non è semplice: “Tra il 2017 e il 2018 ho provato a riaffacciarmi al mondo del lavoro, ma avevo sempre un retropensiero che mi faceva star male. Poi il mondo del lavoro è difficile e io venivo scartata sistematicamente”.
Proprio il lavoro è stata una tra le cause che più l'ha fatta soffrire: “Ci sono state forse delle piccole avvisaglie. Ho sempre avuto delle difficoltà a rivedermi nella maggioranza della società. Non sono mai stata isolata, ho sempre avuto amici e una vita normalissima. Ma di fondo c’era questo pensiero. Ma quello che non ha funzionato è stato il lavoro. Tutti questi contratti a termine non mi davano mai una prospettiva a lungo termine che non mi facevano stare tranquilla, ma anzi avevo sempre una sensazione di ansia verso il futuro. Non ero tranquilla. Fare colloqui, andare all’ufficio interinale ma poi non essere ma richiamata. Il tema del fallimento è un tema che questa società dovrebbe affrontare. Io prendevo le mancate proroghe dei contratti come dei fallimenti. Poi ho avuto un lavoro molto impegnativo a livello emotivo in cui forse non avevo gli strumenti per gestirlo – quando lavoravo in cooperativa sociale – e poi una relazione abbastanza lunga finita piuttosto male. È stato un concatenarsi di cose”.

Ma le opportunità, infine, sono arrivate: “Alla fine del 2018, sotto consiglio della mia dottoressa, ho cominciato a frequentare un’associazione chiamata L’Arco. Qui fanno incontri specifici per la recovery. Finito il percorso di tre, quattro mesi, sono stata chiamata per far parte della squadra di lavoro. Sono quindi diventata un ESP (Esperti nel Supporto tra Pari, ndr): qui ho capito che il mio sapere diventata un valore. Quello che avevo passato diventata un valore per gli altri. È stato un totale ribaltamento della situazione: io pensavo di essere la persona più sfigata al mondo, invece il loro modo di trattarmi mi ha fatto capire il mio valore. Mi trattavano come una persona che ha valore, che non ha subito danni ma che anzi ha una risorsa in più”.

Poi la cooperativa Eta Beta, dove tuttora P. lavora. Qui, sottolinea più volte, c’è un ambiente che la fa sentire a suo agio. È entrata con un tirocinio legato alla cucina. La cucina non le piace, ma le piaceva stare qui: “Quando uno sta male perde il valore delle cose. Invece avere un contesto sano e accogliente attorno aiuta, specialmente se hai attorno persone simili a te. Aiuta. Abbassa lo stress ma soprattutto l’auto-stigma. La cosa più importante è stata avere rapporti di lavoro sani dove c’è fiducia, c’è rispetto, dove sei accolto come sei e dove non c’è stigma. Non devi essere per forza al 100%, puoi essere anche al 20% e non sei giudicato mentre torni al tuo massimo”. E così è stato per lei.

Stigma e società

Chiedo a P. com’è stata la sua esperienza con il CSM: “Se uno ha delle difficoltà secondo me è fondamentale. La mia esperienza è stata positiva. Sono stata molto soddisfatta e molto contenta. Ho ricevuto l’aiuto che mi serviva, naturalmente mettendoci molto del mio. Ma servirebbe più radicamento sul territorio: io ho sfruttato le realtà presenti come la cooperativa Eta Beta e l’associazione L’Arco, ma sono poche. Non basta lo psichiatra e non basta la medicina. È importante che ci sia dell’altro oltre alle poche ore che si passano con i dottori. Ci vuole di più: associazioni, cooperative, persone più sensibili al tema e aziende che aprano a tirocini a questo tipo di persone”.

Ci avviamo alla fine dell’intervista. Dopo più di mezz’ora di conversazione, P. ha ripetuto la parola stigma almeno tre o quattro volte. Le chiedo di parlarmene: “Io sono ancora un’utente dei servizi. Io al momento sono in un percorso di ripresa, credo di stare in un bel periodo e di stare bene. Cerco di non fare cose che so che mi farebbero star male. Cerco di vivere, semplicemente. Da quando ho vissuto questa cosa mi identifico con chi ha più sensibilità: con chi non giudica, con chi ha una sensibilità diversa rispetto alla maggioranza. Chi sta male vede cose che gli altri non vedono. È un male che non si vede e che la società non riesce a vedere. Viviamo in una società in cui bisogna mostrarsi sempre felici, in cui va tutto bene, mentre tutto ciò che è sofferenza è malato e non va bene. La società deve farsi carico di questa sofferenza: non è irrecuperabile. Se si continua a stigmatizzare non si va da nessuna parte”.

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