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Cronaca

Se 3 sentenze e 18 giudici non bastano. 'Ergastolo processuale' all'infermiera e lo sfogo dalla Camera Penale

Anni passati con l'etichetta da killer, poi l'assoluzione. Ma ancora pare non esserci la parola fine. La Camera Penale di Bologna chiede uno stop: "Cultura della giurisdizione è saper comprendere quando l’esercizio di legittime facoltà rischia di trasformarsi in accanimento"

Anni passati con l'etichetta da killer per l'infermiera di Lugo, Daniela Poggiali, sul cui caso però sembra ancora non esserci una parola fine definitiva.  La vicenda - infatti - che ha trovato  diversi esiti processuali, con tre diverse sentenze assolutorie emesse dalla Corte di Assise di Appello di Bologna, che a quanto pare, non saranno sufficienti a mettere fine ad un processo durato diversi anni, in quanto compare all'orizzonte un ennesimo ricorso in Cassazione, preannunciato da parte della Procura Generale.

Annuncio accolto con dissenso dalla Camera Penale di Bologna, che ora chiede uno stop sottolineando che la "cultura della giurisdizione è saper comprendere quando l’esercizio di legittime facoltà rischia di trasformarsi in accanimento". Dissenso che assume la forma di una lunga e dura missiva, a firma del Presidente  Roberto d’Errico e del Segretario Chiara Rodio, che di seguito pubblichiamo integralmente.

La lettera-sfogo dal Consiglio Direttivo della Camera Penale di Bologna “sul processo  Poggiali 

"A volte ci sono incubi che sembrano immuni da qualsiasi pacificante risveglio. Sembra proprio questa la condizione in cui si trova, ormai da anni, Daniela Poggiali, accusata del più grave dei delitti, l’omicidio, che sarebbe stato commesso ai danni di anziani che lei stessa aveva in cura quale infermiera.
La vicenda è molto nota, avendo suscitato grande interesse, a tratti morboso, da parte dei media locali e nazionali. Una vicenda che ha trovato già diversi esiti processuali, con tre diverse sentenze assolutorie emesse dalla Corte di Assise di Appello di Bologna, che però, a quanto pare, non saranno sufficienti a mettere fine ad un processo durato diversi anni, avendo appreso di un ennesimo ricorso in Cassazione preannunciato da parte della Procura Generale.
Dopo l’ultima sentenza, emessa pochi mesi fa, con la più ampia formula assolutoria per l’insussistenza dei fatti, la sig.ra Poggiali avrà pensato di essersi finalmente ridestata da quell’incubo in cui era scivolata nel lontano 2014. Un incubo processuale che è stato inesorabilmente accompagnato da una brutale gogna mediatica, che assume la colpevolezza quale presunzione assoluta, tanto da averle da subito cucito addosso la spregevole definizione di “angelo della morte”.
D’altra parte, questa è la drammatica realtà che segna ormai troppe vicende di cronaca in questo paese: la costruzione mediatica del “mostro” da mettere sul banco degli imputati di un processo popolare spettacolarizzato, in cui la sentenza deve essere immediata, e deve essere inesorabilmente di condanna. Ovviamente senza ristori o scuse se si scopre che il “mostro” è innocente.

Questa triste constatazione può valere quando la si applichi ad una opinione pubblica formata e intrisa della cultura del sospetto, che non si è ancora del tutto scrollata di dosso quei primordiali istinti vendicativi che avevano portato, nel medioevo, la Santa Inquisizione a una strage di donne innocenti, ritenute “streghe” sol perché colpevoli di comportamenti non conformi alla morale pubblica. La stessa morale che, per inciso, oggi consente di sovrapporre comportamenti eticamente o moralmente inappropriati a turpi delitti, e che reclama la condanna per questi delitti in forza di quei comportamenti.
Ma se al popolo difficilmente può chiedersi di prendere atto che la “verità” la si costruisce nell’ambito di un Giusto processo regolato dalle norme delle Costituzione e del Codice, e che a costruire i mostri non possono bastare i “chiacchiericci” nelle corsie di un Ospedale, ecco che invece questo lo si
può, e lo si deve, chiedere a chi si proclama, quotidianamente, custode e tutore della “cultura della giurisdizione” ".

Così il primo stralcio della missiva, che continua mettendo i puntini sulle i sulla cultura della giurisdizione. Nel mirino la macchina della legge.

La stoccata ai 'custodi e tutori della cultura della giurisdizione'

Proprio ai 'custodi e tutori della cultura della giurisdizione', si rivolge la nostra Camera penale. Affondando così: "Cultura della giurisdizione significa ossequiare il principio del ragionevole dubbio, che al cospetto di tre sentenze assolutorie, emesse da ben diciotto Giudici, dovrebbe imporre una presa di coscienza che rifugga da personali convincimenti su dove stia la verità, che si affranchi da logiche di vittoria e/o di sconfitta, che non possono appartenere ad una parte pubblica, e che rischiano di conferire al processo più l’immagine di un duello che quella, voluta dalla Costituzione, di una confronto dialettico incentrato sul contraddittorio.

Cultura della giurisdizione significa rispetto per il principio di ragionevole durata del processo, che costituisce uno dei valori fondanti del Giusto processo consacrato nell’art. 111 della Costituzione.

Per la Pubblica accusa questo principio non può non essere declinato senza considerare l’esposizione dell’imputato al rischio di un processo sine die, tanto più quando esso è accompagnato da una gogna mediatica che ha, letteralmente, già fatto a pezzi la dignità di questa donna.

Cultura della giurisdizione è saper comprendere il momento in cui l’esercizio di pur legittime facoltà rischia di trasformarsi in accanimento processuale, trascinando una persona in quello che è stato efficacemente definito un “ergastolo processuale”.

Infine la chiosa della lettera, affidata alle parole dello scrittore Gesualdo Bufalino, che diceva “Il dubbio è una passerella che trema tra errore e verità”. E l'auspicio della Camera che "sia l’ultima volta in cui Daniela Poggiali sia costretta ad attraversare quella tremante passerella, e che al suo termine possa trovare un definitivo, pacificante, risveglio".

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