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Cronaca

In regione 1 minore su 10 in condizioni di povertà relativa. Save the Children: "Infanzia a rischio estinzione”

I ragazzi tra i 18 e i 24 anni che non studiano e non hanno concluso il ciclo d’istruzione sono il 9,3%, mentre i NEET raggiungono la percentuale del 16%. E' la fotografia scattata nella XII edizione dell’Atlante dell’infanzia a rischio

Il 16% dei bambini in Emilia Romagna è in povertà relativa, solo poco più di un bambino su 4 ha accesso agli asili nido. Mensa e tempo pieno mostrano diseguaglianze tra le diverse province . Sono i dati regionali estrapolati dalla fotografia scattata nella XII edizione dell’Atlante dell’infanzia a rischio dal titolo “Il futuro è già qui”, diffuso a pochi giorni dalla Giornata mondiale dell’Infanzia e dell’Adolescenza da Save the Children.

Da molti anni si dice che l’Italia non è un “paese per bambini”, ma a questo punto, dopo qualche decennio di lento declino, sembra quasi diventato un paese in cui l’infanzia è “a rischio di estinzione”. Rileva l'associazione, sottolinenado che "dai tempi del baby boom ad oggi la rotta sembra infatti essersi clamorosamente invertita: una marcia indietro che ha travolto la curva demografica e l’ascensore sociale, sempre più in caduta libera e che rischia di trascinare il futuro delle giovani generazioni e del Paese intero". 

Infanzia, i dati che raccontano la situazione in Emilia Romagna

Anche in Emilia-Romagna la condizione dell’infanzia non è delle migliori, secondo lo studio di Save the Children: più di un minore su 10 (16%) vive in condizioni di povertà relativa. Gli “early school leavers” – cioè ragazzi tra i 18 e i 24 anni che non studiano e non hanno concluso il ciclo d’istruzione - sono il 9,3% e i NEET - giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano, non studiano e non sono inseriti in alcun percorso di formazione - raggiungono la percentuale del 16%. In entrambi i casi si tratta di percentuali inferiori alla media nazionale (rispettivamente 13,1% e 23,3%), ma non molto lontane da quelle europee (9,9% e 13,7%).   

In Emilia-Romagna - secondo quanto emerge ancora dall'Atlante - più di un bambino su 4 (28,7%) usufruisce di asili nido o servizi integrativi per l’infanzia finanziati dai Comuni, un dato al di sopra della media nazionale che si attesta al 14,7%. La spesa media pro capite (per ogni bambino sotto i 3 anni) dei Comuni della regione per la prima infanzia è di 1932 euro ciascuno, un dato che si attesta nella fascia medio-alta, basti pensare che in Italia si passa dalla spesa di Trento di 2.481 euro fino ai 149 euro in Calabria. 

Qualche da Bologna e le altre province

a Né il divario riguarda solo la prima infanzia. Anche crescendo, le disuguaglianze non spariscono: in Italia solo il 36,3% delle classi della scuola primaria usufruisce del tempo pieno, con forti disparità sul territorio. Guardando alle province dell’Emilia-Romagna, Rimini si ferma al 24%, Forlì-Cesena al 27%, Ferrara al 31,7%, Reggio Emilia al 35,2% e Parma al 46,2%. Più virtuose Piacenza (53,4%), Ravenna (54%), Bologna (60,8%) e Modena (74,5%). Anche per le mense scolastiche, le disparità si notano. Tranne Reggio Emilia 42,3%, fanalino di coda, e Rimini (56%), le altre province sono quasi tutte al di sopra della media nazionale del 56%: Forlì-Cesena 74,4%, Ferrara 76%, Modena 77%, Piacenza 84%, Ravenna 87,6%, Parma 88% e infine Bologna 93%.

Cali di apprendimento e divari sono evidenti nell’analisi degli ultimi test Invalsi, su cui pesano fortemente i mesi di chiusura delle scuole durante la pandemia. La dispersione implicita, ovvero il mancato raggiungimento del livello sufficiente in tutte le prove, in Italia è in media del 10% nell’ultimo anno delle scuole superiori, con significative variazioni su scala regionale. In Emilia-Romagna, i valori sono tutti al di sotto di questa percentuale, da Ferrara (7,7%), a Rimini (6,4%), a Modena e Reggio- Emilia (al 6%), poi Parma (5,8%), Forlì-Cesena (5,2%), con Piacenza (5%), Ravenna (4,9%) e Bologna (4,5%) più virtuose.

I dati INVALSI hanno, inoltre, certificato che, se la crisi complessivamente ha colpito tutti gli studenti, le bambine, i bambini e gli adolescenti che erano già in condizione di svantaggio hanno subito le conseguenze più gravi. I punteggi medi dei test in italiano e matematica, evidenziano, infatti, risultati peggiori per i ragazzi che provengono da famiglie di livello socio-economico basso o medio basso, confermando come la DAD abbia fatto venire meno l’effetto perequativo della scuola, lasciando indietro gli studenti che per mancanza di strumenti e di aiuto in casa, non sono riusciti a stare al passo col programma. 

Povertà e pandemia

Le diseguaglianze sociali si traducono non soltanto in mancanza di opportunità educative per milioni di bambini ma anche nell’impossibilità di soddisfare esigenze basilari: già nel 2019 l’indagine Eu-Silc Eurostat certificava in Italia un tasso di povertà alimentare dei bambini tra 1 e 15 anni del 6%. Nel 2020, l’anno della pandemia, i dati sulla spesa delle famiglie con figli minori mostrano differenze notevoli tra quelle più ricche e quelle in condizione di povertà: al Nord la spesa alimentare media mensile di una famiglia benestante era di 913 euro, due volte e mezzo quella di una famiglia del quinto meno abbiente, che spendeva 380 euro. Al Centro la differenza aumenta e nel Mezzogiorno si allarga passando da 1267 euro per le famiglie più abbienti a 442 per quelle più povere. Per il quinto di famiglie più in difficoltà, la spesa alimentare e quella per l’abitazione, incluse le bollette, occupa la gran parte del bilancio familiare, lasciando poco e niente per spese importanti per la cultura, lo sport, la salute e per l’istruzione dei figli. Proprio su queste voci di spesa ‘educative’ e generative la forbice tra famiglie benestanti e in difficoltà si allarga drammaticamente, segnalando anche un possibile divario di offerta territoriale di opportunità legato ai luoghi in cui crescono i bambini, laddove le famiglie più povere sono più concentrate nelle c.d. “periferie educative”. 

“Con la pandemia i divari nelle opportunità di crescita si sono ampliati, non solo lungo la linea geografica nord sud, ma anche all’interno delle regioni più sviluppate, nelle grandi città come nelle aree interne, spiega Raffaela Milano, Direttrice dei Programmi Italia- Europa di Save the Children. “Quella descritta dall’Atlante è una geografia dell’infanzia che svela ingiustizie di opportunità, di diritti e di futuro. Il punto di svolta per invertire la rotta è il PNRR, combinato alla nuova programmazione dei fondi europei e alla Child Guarantee, un investimento complessivo sull’infanzia che non ha precedenti dal dopoguerra. Ma se l’impiego di queste risorse sarà volto a rafforzare solo i territori più attrezzati e verrà tutto deciso dall’alto, senza un coinvolgimento delle comunità locali e degli stessi ragazzi e ragazze, il rischio reale è quello di migliorare gli indicatori nazionali senza tuttavia ridurre – anzi aggravando – le disuguaglianze. E’ un rischio concreto, se si considerano i primi bandi sugli asili nido che hanno tagliato fuori molti territori più deprivati. Inoltre gli investimenti nelle infrastrutture previsti dal Piano vanno subito collegati ad un aumento permanente della spesa per i servizi, se non vogliamo trovarci, come già successo in passato, di fronte ad asili nido nuovi di zecca che restano chiusi per mancanza di personale. Occorre fare dunque del PNRR non un insieme di progetti, ma una nuova direzione di marcia per il paese, dove i diritti di tutti i bambini, le bambine e gli adolescenti siano messi al primo posto delle politiche”.  

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