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Cronaca Viale Aldini

Gialli bolognesi, il delitto del freezer: Silvia morta fra bugie, manipolazioni e depistaggi

Il suo corpo era chiuso in un congelatore a pozzetto comprato dal suo fidanzato dopo l'omicidio. Una rete di finti post e sms per ingannare le amiche che la stavano cercando e convincerle che fosse in vacanza

"Se è successo a Silvia, allora può accadere a qualunque altra donna. Anche a me e a te" (di essere ingannata e ammazzata così crudelmente). Questa frase, pronunciata da chi conosceva la vittima (una donna colta, bella e benestante) è agghiacciante quanto tutti gli altri elementi di una storia che ha scosso un'intera città: Bologna sotto shock quella mattina di giugno del 2013, quando i sigilli della Scientifica hanno delimitato l'appartamento di viale Aldini. Dentro, il corpo senza vita di una giovane donna, avvolto in un sacco di plastica, rannicchiato all'interno di un congelatore a pozzetto. Letali per Silvia Caramazza (a 39 anni) 7 colpi alla testa di un'arma contundente identificata poi nell'attizzatoio del caminetto di casa.  

Un passo indietro: chi era Silvia Caramazza

Silvia aveva 39 anni, un percorso di studi approdato a una laurea in Economia, commercialista prima, agente iimmobiliare nell'ultimo periodo. Un breve matrimonio alle spalle e poi la morte della mamma e la malattia del padre. Una serie di dispiaceri, fra le perdite e la separazione, che l'avevano messa profondamente in crisi facendola piombare in una buia depressione. Quasi irriconoscibile per i chili accumulati e un aspetto molto lontano da quello che le sue amiche conoscevano, Silvia Caramazza aveva avuto la sfortuna di incontrare il suo assassino in un periodo di estrema vulnerabilità: era Giulio Caria, l'uomo che le doveva ristrutturare casa per renderla più accessibile per il padre da assistere. 

Giallo in viale Aldini: ritrovato cadavere congelato

Gelosia, pedinamenti e videocamere nascoste in casa: i dettagli della relazione "malata"

Giulio Caria e Silvia Caramazza avevano una relazione: lui si era "infilato" nella sua vita nel momento di maggiore debolezza, dopo la morte del padre. Che ricordiamo, veniva dopo quella della madre e la fine del suo matrimonio. Chi la conosceva non pensava fosse adatto a lei, ma insieme hanno trascorso due anni. Due anni fatti di manipolazioni e vessazioni, controlli anche attraverso dispositivi come cimici e videocamere nascoste in casa, nei posti più impensabili come il contatore dell'acqua. Silvia ne aveva trovate alcune e aveva anche sporto denuncia contro ignoti. Ignoti che Caria insisteva nel convincerla, fossero i suoi parenti. 

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Dal "ti lascio" alle bugie e ai messaggi che Silvia non ha mai scritto

E Silvia a un certo punto evidentemente dice basta. Lo voleva lasciare e lo avrebbe confidato anche alle sue amiche, che fra l'altro sono quelle che il 19 giugno 2013 ne hanno denunciato la scomparsa: davvero poco convincenti i messaggi di Caria ("Silvia sta bene ma non vuole parlare con nessuno") e gli sms sgrammaticati e ben lontani dalla penna di Silvia. Era sempre lui che rispondeva al telefono con un sacco di scuse e, sempre lui, aveva scritto un post sulla pagina Facebook della ragazza alludendo addirittura all'idea di sposarsi. Falsa la vacanza in Grecia, falsa il giro in Sicilia. Falso l'indirizzo che a un certo punto l'uomo comunica ai Carabinieri rispondendo alle loro richieste. Falso il racconto: "Abbiamo litigato e adesso lei è a Catania da alcuni parenti". 

Era un giovedì il 27 giugno del 2013. Quella mattina la Polizia forza l'abitazione di Silvia, al 28 di viale Aldini: gli agenti si sono trovati davanti a una terribile scoperta, quel vecchio freezer piazzato nella camera da letto a custodire il corpo martoriato e senza vita dell'ennesima donna vittima di femminicidio. Sempre il 27 giugno Giulio Caria era stato arrestato in Sardegna (l'uomo è di origini sarde) dopo un vano tentativo di fuga con l'accusa di omicidio aggravato. La condanna trentennale è arrivata nel 2014 e la conferma in appello due anni dopo. 

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La storia di Silvia Caramazza resta una ferita aperta non solo per Bologna e per chi ogni volta che percorre il viale all'altezza della palazzina nella quale viveva pensa alla sua vita interrotta, ma rientra nei dolorosissimi casi si femminicidio che non vanno dimenticati. Silvia, tutto quello che stava vivendo, aveva anche provato a raccontarlo in un blog aperto nel 2005 che aveva chiamato Latte Versato. Un detto che rimanda all'inutilità di disperarsi su errori ormai commessi, un titolo che oggi, fa venire la pelle d'oca. 

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