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Cronaca

Il diabete non è una malattia per ricchi: ecco perché colpisce più gli immigrati

Una ricerca sull'area della Città Metropolitana di Bologna restituisce dati che ci fanno capire che direzione stiamo prendendo e con quali conseguenze

Che rapporto c'è, nel nostro territorio, fra la popolazione immigrata e il diabete? Quanto la genetica e come la cultura, alimentare e non solo, possono influire in questa relazione e quali saranno le criticità davanti alle quali ci troveremo nei prossimi anni? E fra ricchezza e povertà, quali differenze ci sono nell'ottica di malattie come l'obesità? L'argomento, interessante sotto tanti punti di vista, lo sviscera Giulio Marchesini Reggiani, già direttore del dipartimento di dietologia clinica al policlinico Sant’Orsola Malpighi di Bologna e docente dell'Alma Mater: "Nell'area della Città Metropolitana e dunque quella di competenza dell'Azienda USL di Bologna, abbiamo sviluppato una ricerca (nell’ambito di un programma di rete finanziato del Ministero della Salute e delle Regioni su Audit e Feedback) specifica su diabete e scompenso cardiaco. Un database ha raccolto tutti i dati amministrativi e clinici dei casi individuati con queste patologie, consentendo di analizzare diversi aspetti critici per quanto riguarda l’assistenza. Rispetto al diabete, i casi sono stati identificati attraverso la presenza di almeno uno di questi tre indicatori: prescrizioni di farmaci anti-diabetici, ricoveri con un codice di dimissione ospedaliera di diabete ed esenzione per diabete o presa in carico da un centro di diabetologia". A coordinare il lavoro di ricerca è stata l’IRCCS Sant’Orsola, ma con una fattiva collaborazione dell’Azienda AUSL di Bologna, e in particolare del Dipartimento di Epidemiologia diretto dal dottor Paolo Pandolfi.

I numeri: l'indagine sul rapporto che c'è fra diabete e immigrazione

Nel territorio bolognese si confermano le differenze già evidenziate in precedenti analisi, in stretto rapporto con le condizioni socio economiche che hanno portato gli studiosi a indagare anche il rapporto tra diabete e immigrazione, reso possibile dall’identificazione del Paese di origine delle persone con diabete mediante l’analisi del codice fiscale (le cui ultime cifre rivelano l'origine). L’intera popolazione con diabete è stata analizzata retrospettivamente a partire dal 2019 fino al 2010, per documentare i casi progressivamente incidenti e l’incidenza cumulativa fino al 2019. Questa coorte è stata poi seguita nei 2 anni successivi (2020 e 2021) per analizzare le prescrizioni di esami clinici e strumentali, visite e farmaci in rapporto al diabete e al Paese di provenienza (studio condotto da: Giulio Marchesini, Dino Gibertoni, Chiara Giansante, Vincenza Perlangeli, Roberto Grilli, Luigia Scudeller, Carlo Descovich, Paolo Pandolfi). 

Quello che emerge è che oltre un quarto dei nuovi casi di diabete a partire dal 2019 possa aver interessato coorti di popolazioni regolarmente residenti in Italia, ma nate in altri Paesi. Molte delle quali in Paesi notoriamente a rischio di diabete come Asia, Medio Oriente e subcontinente indiano. Le differenze fra la popolazione bolognese e la popolazione immigrata da Paesi a rischio diabete sono, oltre a un quadro sanitario differente, diverse condizioni di vita, abitudini culturali e alimentari, situazione socio-economica e lavorativa.

Diabetici sempre più giovani fra le popolazioni di immigrati: le ragioni 

In questo contesto, un problema primario è rappresentato dalle malattie metaboliche: "Sono due le cose importanti da sottolinare - spiega Giulio Marchesini Reggiani - la prima è che l'aumento dei casi di diabete in questa popolazione immigrata era un evento largamente previsto e prevedibile perché sono note per avere già di per sé una forte incidenza anche nei paesi di origine, soprattutto dopo dei regimi di deprivazione. Anche in Cina e in Medio Oriente, nelle zone petrolifere e oggi molto ricche, si sperimenta questa problematica visto che in passato, fatta eccezione per pochi privilegiati, non avevano grandi risorse su cui poter contare. Poi, quando queste popolazioni migrano in altri luoghi nei quali sicuramente mangiano in maniera un po' diversa, tendono comunque a mantenere le abitudini alimentari originali, finendo per sviluppare il diabete e soprattutto ammalandosi a un età molto più bassa rispetto agli indigeni, che in questo caso siamo noi italiani". 

Una questione di cultura: quando l'educazione sanitaria non è adeguata 

"Non vorrei però che questo venisse interpretato come un difetto da parte del sistema sanitario perché è molto difficile intercettare queste persone. - precisa lo studioso - Le cause sono i comportamenti sociali che restano diversi rispetto ai nostri, controlli rari e in generale un'educazione sanitaria su un altro livello. C'è una difficoltà di approccio anche in termini linguistici e tecnici - continua il docente - e tutto questo richiederebbe senza dubbio strategie diverse rispetto a quelle di cui disponiamo oggi". 

TABELLA | Caratteristiche cliniche della popolazione con diabete nell’area metropolitana di Bologna, in rapporto allo stato di immigrante o di nato in Italia. I valori sono riferiti al primo esame disponibile per paziente, espressi come mediane (salvo diversamente riportato) o come percentuale sulla popolazione corrispondente.

TABELLA DIABETE

Certamente, le cause partono da lontano, da un imprinting genetico ed epigenetico che le popolazioni a rischio di malnutrizione si portano dalla nascita. La predisposizione genetica a sviluppare insulino resistenza e obesità centrale, l’esposizione a un ambiente intrauterino carenziale secondo la validata teoria di Barker, spingono infatti tutte in direzione del diabete. Molti immigrati in Italia sono infatti vissuti in contesti di povertà che hanno predisposto l’organismo a un assetto metabolico di risparmio che porta inevitabilmente all’obesità non appena vengono esposti all’ambiente obesiogeno della vita occidentale. Nonostante gli sforzi fatti per rendere universalistiche le protezioni sanitarie, esistono infatti barriere di tempo, di spazio, barriere linguistiche e culturali, che possono modificare il destino sanitario di questi cittadini.  Questi fattori si sommano ovviamente a fattori socio-economici presenti anche nella popolazione nata in Italia e distribuita nei diversi quartieri di Bologna: la prevalenza del diabete nei vari quartieri cittadini è in rapporto al reddito medio degli abitanti. Prima della pandemia i valori erano tra il 3,2% e il 4,2% nelle zone collinari e nel centro cittadino, ad alto reddito, mentre la prevalenza sale fino a valori del 6,5% nei quartieri periferici (zona Pilastro), dove esiste anche un’alta concentrazione di immigrati. 

Frustrante questo dato per il mondo medico? Dunque il reddito influisce sull'incidenza della malattia o almeno sul suo sviluppo precoce? "Un po' frustrante lo è certamente. Si tratta di una situazione molto impegnativa, soprattutto da un punto di vista economico, perché pesa sul sistema sanitario nazionale. Un paziente diabetico costa mediamente il doppio rispetto a un paziente che non ha il diabete. Il reddito, così come ha dimostrato la ricerca, influisce: a Bologna c'è la prevalenza col diabete in percentuale del 3,5% nelle fasce più ricche e il 6/7% nei quartieri di periferia. Da un lato perché sono le zone della città in cui vivono le etnie di cui abbiamo parlato, ma anche perché le persone con meno possibilità mangiano peggio. Diabete e obesità, al contrario di quello che si potrebbe immaginare, non solo malattie da ricchi, anzi: colpiscono i poveri perché sono loro che mangiano peggio". 

Le coorti che appaiono più problematiche risultano provenire dai 4 paesi del subcontinente indiano (Bangladesh, India, Pakistan, Sri Lanka), con un rischio di diabete aumentato del 72% rispetto alla popolazione nata in Italia (OR, 1,72; 95% CI, 1,49-1,65) e dai paesi dell’Africa mediterranea e subsahariana nella loro globalità (OR, 1,97; 95% CI, 1,87-2,07), e particolarmente Marocco (OR, 2,07; 1,94-2,19), Tunisia (OR, 1,95; 1,72-2,20), Sri Lanka (OR, 2,12; 95% CI, 1,85-2,44) e Bangladesh (2,10; 1,94-2,28), comunità numerose nell’area bolognese. Per quanto riguarda le aree geografiche, il maggior numero di casi di diabete negli immigrati si presenta infatti nei Paesi dell’Africa mediterranea e subsahariana (2170 casi nati in 10 diversi Paesi), con un picco particolare negli immigrati provenienti dal Marocco (1219 casi) e dalla Tunisia (289 casi), seguiti dal gruppo nato nei Paesi dell’ex-Europa orientale (1884 casi in nati in differenti 21 paesi), con un forte numero proveniente dalla Romania (475 casi), dall’Albania (293 casi), dalla Moldavia (285 casi) e dall’Ucraina (229 casi). Seguono poi i casi provenienti dal subcontinente Indiano (1635 casi nati in soli 4 Paesi: Bangladesh, 677; India, 97; Pakistan, 638; Sri Lanka, 223), l’estremo Oriente (Filippine e Cina, con 662 casi in totale), Medio Oriente (331 casi nati in 12 Paesi), America centrale e meridionale (206 casi). 

Come ridurre le distanze e prevenire il diabete nelle popolazioni immigrate

Cosa fare dunque? Da quello che emerge dallo studio è chiaro come occorra produrre materiale informativo che tenga conto delle caratteristiche peculiari di questa popolazione, formando dietiste in grado di elaborare piani alimentari con cibi diversi, e soprattutto educare queste popolazioni a rivolgersi ai Servizi Sanitari, che spesso tendono a trascurare per ragioni logistiche o culturali. Ai medici di Medicina Generale è lasciato il compito non facile di intercettare questi bisogni, di concerto con tutto il personale sanitario distribuito sul territorio, gestire al meglio protocolli che frequentemente vengono disattesi dai pazienti e fornire ogni supporto educazionale e farmacologico per ridurre il carico della malattia. Le Aziende Sanitarie, dal canto loro, stanno già sperimentando interventi di natura socio-sanitaria in microaree caratterizzate dalla presenza di una quota importante di stranieri (azione congiunta di assistenti sociali e infermieri su quei territori); d’altro canto si sta istituendo una nuova figura professionale quale l’infermiere di comunità che può essere di riferimento, in questi contesti, per il medico di Medicina Generale.

Giulio Marchesini Reggiani

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