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Domenica, 28 Aprile 2024
Cronaca

"Ho denunciato ma non è servito, con la mia rabbia combatto la violenza di genere"

Intervista a Valeria Fonte, laureata all'Università di Bologna, influencer e attivista. La sua frase "È stato il vostro bravo ragazzo" è diventata il simbolo del dolore e della rabbia per il femminicidio di Giulia Cecchettin

Valeria Fonte è laureata in Italianistica dell'Università di Bologna. Ha 25 anni e da tempo porta avanti una lotta contro la violenza di genere. Una battaglia politica e morale, ma anche personale, dopo che quattro anni fa una persona ha condiviso foto e video intimi senza il suo consenso. "Un dolore atroce", come ha raccontato a BolognaToday, che nemmeno la denuncia - finita in archiviazione - è riuscita a lenire. Da quella vicenda Valeria si porta dentro tanta rabbia. E questa rabbia oggi alimenta il suo attivismo femminista e la sua attività di influencer sui social. "È stato il vostro bravo ragazzo" è la frase che ha condiviso nel giorno del ritrovamento del cadavere di Giulia Cecchettin, la 22enne uccisa dal suo ex ragazzo, Filippo Turetta. Un'accusa perentoria che è diventata virale: è stata ripresa da tutti giornali, durante i cortei anti violenza di genere di questi giorni e dalla stessa sorella della vittima, Elena, che l'ha fatta sua. Il simbolo del dolore davanti a quello che è stato il 105esimo femminicidio in Italia nel 2023.

Valeria, partiamo dall’attualità. Il governo vuole introdurre nelle scuole l’ora di “educazione alle relazioni” e coinvolgere psicologi, attivisti ma anche celebrità e influencer per sensibilizzare i più giovani alla violenza di genere. Pensi possa funzionare?

No. Io credo che la proposta sia dettata dal puro opportunismo politico. La cosiddetta "educazione alle relazioni" non è sufficiente, soprattutto se parliamo di una o due ore a settimana. Un governo che crede che basti un'ora a settimana per salvare la vita di noi donne vuol dire che sottostima problema della violenza di genere. Ci vuole un'educazione affettiva, sessuale e digitale completa. E le vanno dedicate tante ore quanto quelle di matematica. È una strategia a lungo termine: iniziando oggi, forse tra due generazioni cominceremo a vedere i primi cambiamenti. Ma l'educazione non è la soluzione a tutti i mali.

Non lo è?

Servono finanziamenti all'autonomia delle donne e leggi più strutturate per la tutela e la credibilità della vittima. Le forze dell'ordine devono ricevere una formazione specifica sulla violenza di genere. Tutto questo manca, mentre in Italia si continua a pensare soltanto alle panchine rosse.

Tu sei un’attivista femminista e un’influencer. Nel caso ti venisse chiesto di fare parte dell’iniziativa del governo accetteresti?

Mi direi disponibile perché penso che sia importante occupare ogni spazio possibile con la nostra presenza e i nostri messaggi. Come so che troverebbero disponibili tutte le mie compagne attiviste. Ma noi facciamo il nostro lavoro di divulgatrici ogni giorno, è il governo che deve iniziare a fare il proprio.

Dal 1 gennaio a oggi alla Casa delle Donne di Bologna si sono rivolte quasi 600 donne, mentre l’anno scorso 71 studentesse hanno chiesto aiuto agli sportelli anti-violenza dell’Università di Bologna. Numeri che crescono ogni anno. Eppure di questo fenomeno se ne parla molto, a partire dalla giornata di oggi 25 novembre. Cosa non sta funzionando?

Gli strumenti che abbiamo non sono sufficienti. I Centri anti-violenza e le Case della donna sono importanti, così come il mutuo aiuto tra le vittime. Ma non bastano contro quello che è un fenomeno sistemico, perché la violenza di genere non è un'emergenza ma una condizione in cui viviamo tutti i giorni. Anche denunciare non funziona. Spesso le donne che denunciano non vengono credute, o non trovano un supporto adeguato da parte delle forze dell'ordine. E rimangono, se possibile, più sole di prima.

Perché succede questo?

Io stessa ho denunciato perché una persona aveva divulgato senza il mio consenso mie foto e video intimi. Per quattro anni ho atteso una risposta, mi sono chiesta se qualcuno pagherà e chissà quando, ho sperato che accadesse. C'erano tutte le prove. Poi qualche settimana fa è arrivata l'archiviazione. Mi ha fatto comprendere il dolore atroce delle vittime. Denunciare è difficile, è un investimento di tempo e forze mentali ed emotive da parte della donna. Che si espone, e rischia la propria vita perché l'abusatore potrebbe venirlo a sapere o le custodie cautelari emesse nei suoi confronti sono troppo blande. E nonostante questo, troppe volte subiamo una vittimizzazione secondaria in cui la polizia, o i parenti, o addirittura l'opinione pubblica nei casi più eclatanti, ci ritengono in qualche modo responsabili degli abusi. È tutto prodotto dalla cultura patriarcale.

Hai pubblicato un libro (Ne uccide più la lingua, DeAgostini) e sei molto attiva sui social, dove sei seguitissima da ragazzi e ragazze. Ti è capitato di raccogliere richieste di aiuto da parte di giovani che non riuscivano a trovarlo altrove?

Sì, ogni giorno ricevo messaggi da persone che hanno bisogno di aiuto. Tantissimi casi di violenza digitale legata alla condivisione non consensuale di materiale intimo, come quella che ho subito io. Mi contattano per confidarsi e per ricevere consigli su cosa fare e a chi rivolgersi. Poi ci sono i messaggi più disperati: "Aiutami perché non so come uscirne".

Dici che l'educazione al consenso è uno dei fondamenti della lotta alle discriminazioni e violenze di genere. Cosa intendi?

Il consenso non è soltanto un "sì" o un "no" durante il sesso, ma è tutto ciò che mette una persona nella posizione di poter decidere sul suo corpo e sui suoi desideri. È un concetto che va insegnato ai bambini già dai tre anni. Già a quell'età dovremmo imparare a chiedere alla persona con cui stiamo parlando se possiamo abbracciarla o toccarle i capelli, o domandarle se le interessa ricevere il nostro parere. Parlare di questo nelle scuole non è influenzare i bambini con un'inesistente e ridicola "teoria Gender". È gettare le basi della cultura del consenso, fondamentale per debellare quella dello stupro.

È stato il vostro bravo ragazzo” è una tua frase che sui social e sui giornali ha circolato molto in questi giorni, dopo il ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin e l’arresto di Filippo Turetta. Racchiude una critica molto forte alle parole e alle immagini, spesso sbagliate, con cui i media scelgono di raccontare la violenza di genere e i femminicidi. Quali sono queste “narrazioni tossiche” e perché?

Per esempio la scelta di utilizzare la foto del femminicida vicino a quella della vittima, che dà l'idea di una coppia felice, in cui tutto andava bene, e romanticizza la violenza. Oppure fornire l'identikit del "bravo ragazzo", come appunto nel caso di Turetta: perché se hai 22 anni, fai l'università e i biscotti alla tua ragazza, allora le botte e le coltellate sono state un raptus improvviso. Nessuna follia, nessun mostro: il femminicida è il figlio sano del patriarcato, come ha ricordato anche la sorella di Giulia in diretta tv. L'idea del ragazzo puro che uccide per il troppo amore è inconcepibile.

Un’ultima domanda. In un tuo ariticolo su Vanity Fair hai scritto che “tutti i maschi ragionano come un femminicida". Quando si parla di violenza di genere, dici tutti gli uomini sono colpevoli in quanto uomini. Perché?

Un uomo che fa catcalling fischiando in direzione di una ragazza che cammina per strada, o che le fa una battuta sessista al lavoro, non è diverso da un femminicida. Perché la cultura in cui nascono e crescono è la stessa. Cambiano ovviamente le singole azioni così come le singole colpe, ma la responsabilità è collettiva.

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