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Domenica, 28 Aprile 2024
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"Città 30: una città per tutti". Intervista a Simona Larghetti

Intervista alla consigliera comunale e attivista per la mobilità sostenibile: dall'origine delle zone 30 al futuro della mobilità bolognese

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Sono passati dodici anni dal primo incontro, a Bologna, sulle zone a trenta chilometri orari come limite di velocità. A organizzarlo, nel 2012, fu Simona Larghetti, oggi consigliera comunale con Coalizione Civica e con un passato – ed un presente – da attivista per la mobilità sostenibile.

Come sta andando la Città 30?

I dati sono stati già resi pubblici, anche se la statistica ha bisogno di più tempo. Solitamente, le altre Città 30 si sono date due anni di tempo per calcolare gli effetti del provvedimento, perché nel calcolo entrano alcuni fattori che possono variare da un anno all’altro. Banalmente, fa differenza se c’è un gennaio piovoso e uno no. Dopo un mese i dati non sono esaustivi. Certo, però, ci sono degli indicatori: il calo di incidentalità con il coinvolgimento dei pedoni è uno di questi. Abbiamo il -16% in generale, dagli incidenti più lievi a quelli più gravi, ma il dato sui pedoni è del -25%. Uno dei commenti che più mi è capitato di ascoltare è ‘mi fanno attraversare sulle strisce pedonali, mentre prima non era così’. Ovviamente non è cambiata la consapevolezza: la conoscenza dell’articolo del codice della strada sulla precedenza ai pedoni è sempre la stessa. Ora, però, l’automobilista ha più tempo per vedere il pedone. Nessuno non fa passare i pedoni perché è cattivo, solo che ora si va più piano.

L’altro dato, anche questo parziale, è relativo alle polveri sottili. Quello che noi sappiamo è che Bologna ha avuto un aumento inferiore a quello delle altre città dell’Emilia-Romagna. Sappiamo che il fenomeno delle emissioni è regionale, quindi è significativo che l’aumento sia inferiore rispetto ad altre città. Ovviamente ci sono diversi fattori che contribuiscono ma, diversamente da quanto viene affermato, è falso che la Città 30 possa aver avuto un ruolo nell’incremento di polveri sottili nell’aria di questo periodo. Anzi, l’unica evidenza che abbiamo va nella direzione opposta.

Il sindaco Lepore ne ha parlato proprio pochi giorni fa.

Sì, questa è una credenza diffusissima. La conoscenza che abbiamo, sia della sicurezza stradale sia delle emissioni dei mezzi, in Italia è stato prodotto dalle case automobilistiche. Non c’è mai stata, secondo me, un’autorità sulla sicurezza stradale che non venga da chi le macchine le vende. Ciò che noi sappiamo sull’inquinamento delle auto è ciò che leggiamo nei libretti delle auto, che ci raccontano i cambiamenti dei cicli emissivi in base alla velocità, ma i test vengono fatti in circuito. Certo che ai 50 si emette di meno che ai 30, ma solo se vai a velocità regolare su un circuito. È normale che si pensi che più vai piano e più inquini, ma è la narrazione dei libretti di circolazione dei veicoli.

Sulla Città 30 si è scatenato un forte dibattito con l’opposizione, più forte di quanto era lecito aspettarsi. Quali sono i punti in cui siete più divisi con la minoranza?

In realtà non è vero che non siamo d’accordo sui temi. È proprio l’approccio al discorso che è profondamente diverso. Io non sono sorpresa: questa è la stessa classe politica di Lisei e Bignami che parlavano del deserto pedonale dei T Days e che dicevano che la tangenziale delle bici non l’avrebbe usata nessuno. Io all’epoca ero presidente della Consulta della bicicletta, loro erano consiglieri in Comune e in Regione e hanno sempre avuto questo atteggiamento qui. Non hanno mai portato un dato, non hanno mai fornito una loro visione sulla sicurezza stradale. La loro postura è semplicemente conservatrice, ed è quella di dare voce alle preoccupazioni dei cittadini. Non c’è argomentazione, c’è solo la richiesta di conservare lo status quo. Non hanno neanche mai fatto una proposta.

Per esempio Ascom, che non è l’opposizione, ha avuto una postura più aperta al dialogo. La loro proposta, che è quella di tenere i limiti a 30 chilometri orari solo dentro le mura, almeno c’è stata. Ora, il limite ai 30 in centro storico c’è da trent’anni, e se fosse andato bene così non avremmo un problema sulla sicurezza stradale. Però almeno una proposta concreta è arrivata. Con l’opposizione, invece, non si è mai discusso nel merito. Lo status quo per me non è accettabile: venti morti all’anno non sono accettabili. Evidentemente a loro va bene così. Anzi, una cosa su cui proprio non siamo d’accordo c’è: per loro, l’unico cittadino che lavora è quello che si sposta in auto e che fa più chilometri possibili ogni giorno. Esiste quel cittadino, e ovviamente ha la libertà di usare l’auto. Ma non credo che quello sia l’unico modello possibile su cui plasmare la mobilità in città. Ecco, su questo proprio non siamo d’accordo.

Il progetto Città 30 va ben oltre i soli limiti di velocità: sono in programma opere per rendere più vivibili le strade, più piste ciclabili, ci sono le piazze scolastiche e altri tipi di interventi. Però tutto questo, nel dibattito pubblico, di fatto è scomparso. Si parla solo dei limiti di velocità. Secondo te perché?

C’è un grande dibattito su questo tema, e c’è stato anche quando come Coalizione Civica abbiamo presentato il progetto. Ovviamente, essere di sinistra non elimina il problema del cambio di abitudini. Ne abbiamo discusso molto. Politicamente, la Città 30 significa tante cose e noi l’abbiamo impostata così: attorno al limite, che diventa il simbolo, tu aggreghi tutta una serie di idee e di progetti. Ma il simbolo poteva anche essere altro. Potevamo scegliere, ad esempio, la Città dei quindici minuti, poteva essere incentrato sulla bicipolitana. Ci serviva un simbolo che sintetizzasse tutta la trasformazione di uno spazio urbano. Io credo convintamente al limite dei 30, andando anche contro al mio mondo che vorrebbe che tutto girasse attorno alla bicicletta. Io non la vedo così. A me piace sempre paragonare i ciclisti alla ‘specie ombrello’. La specie ombrello è quella specie che in biologia, per il solo fatto di esistere, protegge la biodiversità e permette la vita di altre specie.

Ovviamente non c’è un ciclista tipo: c’è quello antipatico che va sotto i portici e che rompe le scatole a chi esce dal portone di casa, ma in generale la figura del ciclista è quella che rallenta il traffico già solo con la sua presenza in strada. Questo principio si chiama ‘safety in numbers’: quando c’è un certo numero di ciclisti in strada, si creano delle condizioni di sicurezza per tutti gli altri utenti, dai pedoni fino alle automobili. Detto questo, io ritengo assolutamente normale che, una volta scelto il vestito della Città 30, il link diretto sia al limite della velocità. Tutto ciò che avviene attorno è più complesso, sia nel discorso sia nella realizzazione: se per i limiti di velocità fai una delibera e il giorno dopo è valida, per trasformare lo spazio urbano ci vogliono degli anni. Tra l’altro, opere di questo tipo sono state sempre fatte. Magari ora hanno un filo conduttore che le rende più riconoscibili, e forse prima erano meno radicali e meno coraggiose. Ma noi le opere le abbiamo sempre fatte. Se poi saremo stati bravi o no, questo lo dirà la storia.

Quando il sindaco Lepore ha parlato della Città 30 ha raccontato che anche lui era un po’ scettico inizialmente, e che poi si è convinto. Il dubbio è, a questo punto, chi è che gliene ha parlato inizialmente: facendo due più due, tu sei l’indiziata principale, considerando la tua storia più che decennale come attivista per la mobilità sostenibile.

Tecnicamente c’è stato un giorno preciso. Era un pomeriggio d’estate ed eravamo in campagna elettorale per le primarie tra Matteo Lepore e Isabella Conti su chi dovesse essere il candidato sindaco. Abbiamo organizzato un dibattito in piazza Aldrovandi: c’era Andrea Colombo, che all’epoca era ancora consigliere comunale; c’era Beniamino Sidoti, un autore che si occupa di libri legati al gioco e che in qualche maniera sposava l’idea di una città più a misura di bambini e bambine; e infine c’ero io, che a mio modo ho promosso l’idea. Quella è stata la sede in cui, di fatto, abbiamo chiesto ‘se noi ti votiamo, la Città 30 si fa o non si fa?’. Io ancora non ero candidata, ma ho scelto di farlo sulla base di questo impegno.

Io faccio politica dal basso da quindici anni, e so bene che farlo è molto utile se dall’altra parte c’è qualcuno che ti ascolta. Quando ti guardi intorno e ti accorgi che nessuno fa quella parte, ho immaginato che fosse arrivato il momento in cui dovessi farla io. Io in questa cosa ho sempre creduto, semplicemente perché l’ho vista. L’ho vista in tutte le città d’Europa che ho visitato. Nel 2012 ho organizzato il primo incontro sulla Città 30, che si chiamava “Zona trenta gente contenta” insieme all’allora giovane urbanista Matteo Dondé, che avevo ascoltato agli Stati generali della bicicletta a Reggio Emilia, quando nacque il movimento Salvaciclisti. Lì lui parlò di queste zone 30, di cui io non conoscevo assolutamente l’esistenza. Quindi l’ho portato in uno spazio che esisteva in via Stalingrado, e lì abbiamo organizzato un contro-Motorshow. Quello fu l’ultimo anno del Motorshow a Bologna. Il nostro evento si chiamava ‘No engine’, cioè una fiera di veicoli a propulsione umana. Quello è stato il primo incontro organizzato a Bologna sul tema. Da lì ho iniziato a girare per Bologna con le borse catarifrangenti con il simbolo del 30 e a dare volantini e caramelle con lo stesso simbolo. Il motivo è che non ho mai voluto lottare per la bicicletta come mia scelta di vita, ma ho sempre voluto lottare per una città in cui tutte le scelte di vita fossero possibili.  

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