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Cronaca

Archiginnasio d'Oro alla memoria di Paolo Prodi

La proposta di conferimento dell'Archiginnasio d'Oro alla memoria di Paolo Prodi, storico e accademico, scomparso il 16 dicembre 2016, è stata avanzata dal Sindaco Virginio Merola e dalla Giunta, e approvata all'unanimità dal Consiglio comunale

Nel pomeriggio di ieri si è svolta nella Sala dello Stabat Mater della Biblioteca dell'Archiginnasio la cerimonia di conferimento dell'Archiginnasio d'Oro alla memoria di Paolo Prodi. La cerimonia, che si è svolta senza pubblico nel rispetto delle misure imposte dalla pandemia, è stata trasmessa in streaming sul canale YouTube del Comune di Bologna. 

La proposta di conferimento dell'Archiginnasio d'Oro alla memoria di Paolo Prodi, storico e accademico, fratello dell'ex Premier Romano Prodi, scomparso il 16 dicembre 2016, è stata avanzata dal Sindaco Virginio Merola e dalla Giunta, e approvata all'unanimità dal Consiglio comunale.

La cerimonia si è aperta con l'intervento del Sindaco Virginio Merola, cui è seguita la prolusione di Francesca Sofia, docente dell'Università di Bologna che dirige il centro studi sulla storia Costituzionale dedicato a Paolo Prodi. La Presidente del Consiglio Luisa Guidone ha letto la motivazione ufficiale di conferimento dell'onorificenza. Hanno concluso la cerimonia gli interventi di Mario Prodi e di Romano Prodi.

La prolusione di Francesca Sofia

"Di Paolo Prodi la comunità scientifica ha conosciuto molti frutti negli anni di una vita lunga e straordinariamente operosa: si tratta di lavori di grande impegno e qualità, pietre miliari della cultura storica non solo italiana del secondo ‘900 destinate a lasciare dietro di sé lunga traccia. Ripercorrerli tutti nel breve spazio di tempo che mi è stato concesso sarebbe impossibile e probabilmente riduttivo. Mi limiterò pertanto a sottolineare alcuni punti salienti del suo inconfondibile magistero che hanno profondamente segnato le generazioni successive degli storici, a cui appartengo. Prodi con i suoi lavori ha compiuto sul serio un’erosione che ci restituisce, come se fosse un fossile, l’autentica essenza della nostra modernità, ossia il suo carattere eminentemente europeo e occidentale. E ci ha anche spiegato che alcuni fondamentali contenitori come la scienza dello Stato e dell’amministrazione, la politica come patto costituzionale e come tecnica di rappresentanza, il mercato e l’impresa, la gestione e l’organizzazione del lavoro hanno avuto origine e si sono sviluppati soltanto nel nostro continente. Ciò è avvenuto in un fazzoletto di mondo e lungo un arco di tempo che parte dall’antichità classica e giunge fino alla vigilia delle due guerre mondiali del Novecento. Nel corso di una lunga durata, dunque, che sul piano cronologico ha nella genesi del moderno, tra Quattro e Cinquecento, il suo epicentro propulsivo.

Prodi ha insistito molto, e certo non in senso eurocentrico, sul carattere continentale della storia moderna. L’Europa alla fine del medioevo era un’appendice dell’Asia, insidiata dall’espansionismo turco, ma cinque secoli dopo, alla vigilia della prima guerra mondiale, controllava il 90 per cento del globo. Tra i due estremi cronologici era corsa una storia galoppante, alimentata dall’espansione demografica e da un’incessante brama di conquista militare, economica, politica, culturale e religiosa. Per questa ragione la storia dell’età moderna è giustamente considerata una storia d’Europa e della conquista del mondo da parte dell’Europa. Una certezza che si accompagna con la consapevolezza che questo glorioso passato è definitivamente alle nostre spalle. Non tanto quindi storia moderna, con le sue canoniche griglie cronologiche, quelle che grosso modo vanno dalla scoperta dell’America alla Restaurazione, ma storia della modernità, un processo di lungo periodo che parte dalla “rivoluzione” gregoriana per giungere alla seconda guerra mondiale e che condensa la nascita ed evoluzione necessaria del mondo come oggi lo conosciamo e senza la comprensione delle quali esso si fa oscuro. L’accento di tutta la ricchissima riflessione storiografica di Paolo Prodi non sta sui fatti ma sulle interpretazioni, non sugli eventi ma sul loro significato palese, e – ancor più – su quello nascosto, e che solo un ragionamento consente di svelare. In un certo senso tutta la sua riflessione sul fare storia oggi è frutto di un itinerario di ricerca intellettuale, soppesando, nella distanza data dallo spazio di una vita, il senso di un’evoluzione, o – ancora una volta – di un cambiamento: e cioè misurando il “diversamente moderni che siamo” rispetto a ciò che potremmo definire l’”anticamente moderni che eravamo”. Lo ha ricordato lui stesso in densissime pagine autobiografiche, nelle quali la sua opzione per la storia moderna non viene assolutamente ricondotta a uno specifico settore scientifico disciplinare, che del resto all’epoca neanche esisteva – Paolo Prodi era in certo senso fiero di aver vinto un concorso a cattedra nella disciplina Storia senza aggettivi – ma dall’idea, e qui cito testualmente che “per comprendere la crisi epocale, quella della divisione del mondo nei due blocchi e della guerra fredda, era necessario arretrare il punto di osservazione di alcuni secoli per porre al centro dell’attenzione il momento della genesi del sistema che stava entrando in crisi: la nascita del moderno sistema degli Stati e della Controriforma, delle confessioni religiose”.

“Rivoluzione” gregoriana, si è detto, non riforma gregoriana. La definizione, attinta da un famoso libro di Harold J. Berman sulla tradizione giuridica occidentale, e ritrovata poi in uno scritto quasi sconosciuto in Italia, quello di Rosenstock sull’uomo occidentale, segna per Paolo Prodi l’abbrivio della modernità. E’ nella rottura dell’identità tra potere politico e potere sacrale avvenuta con Gregorio VII che inizia il lungo cammino della modernità. E la modernità appunto è segnata non solo dalla continua dialettica tra Atene e Gerusalemme, ma dal suo evolversi nel tempo come “mutamento e rivoluzione continua». Moderno, per Prodi, recuperando la radice etimologica dell’aggettivo, modus, equivale a quel periodo in cui nulla è stabile, un modo d’essere in divenire nella realtà concreta. La fine della modernità equivale pertanto al tramonto della rivoluzione, come s’intitola uno dei suoi ultimi illuminanti scritti edito nel 2015. Non a caso, in un altro libro pubblicato qualche anno prima, Prodi ha posto in esergo un’assai indicativa espressione di Paolo Sarpi che descrive bene la seconda grande opzione scelta per spiegare le origini della modernità: «Quando Dio vuol riformare il mondo, suole metterlo prima in moto, ricercando la nuova forma che la materia si spogli prima della vecchia. Sia fatta la sua volontà». Rivoluzione, dunque, come capacità nel corso dei secoli di progettare una società alternativa a quella presente, e che ha consentito all’Europa, dal Medioevo in poi, di formarsi, espandersi, affermare la propria egemonia: è nell’incapacità di immaginare un nuovo patto politico che faccia fronte alle insicurezze che dominano l’età della globalizzazione che consiste a suo dire il nocciolo duro del declino del vecchio continente europeo.

L’analisi di questi continui cambiamenti nell’espansione avviene valorizzando non il concetto statico di categoria ma quello dinamico di versante: economico, costituzionale, politico, sociale, antropologico. Per versante, e ritorna la metafora dell’esploratore di terre, si intendono i tanti percorsi possibili e sempre plurali che si possono intraprendere, senza la pretesa «che un singolo cammino storiografico possa fornire spiegazioni esaustive». Sono tanti versanti che costituiscono una vera e propria ascesa alla montagna incantata della verità storica e che, l’Università di Bologna ha voluto riassumere, in coerenza con la familiarità di Prodi con la cultura tedesca, come “storia costituzionale”, intesa quest’ultima come la storia di quello spazio pubblico in cui coloro che vi convivono si sentono legati da vincoli di obbligo reciproco. Se guardiamo al lavoro di Prodi con gli occhi di un giurista, possiamo dire che egli abbia indagato (ed è stato il primo a farlo) quello che possiamo chiamare i presupposti dello Stato moderno, quelle forme che tengono insieme la comunità senza solidificarsi in norme positive.
E’ necessario a questo punto precisare quanto questa specifica e originale nozione di moderno remasse contro due opposte, ma per Paolo forse anche convergenti, interpretazioni storiografiche. La prima di esse è quella di una parte della cultura cattolica di cui Prodi denuncia l’ispirazione reazionaria che mitizza il tempo dell’unità del cosmo cattolico rotto dalle insidie della modernità. Fin dall’iniziale opzione per la storia moderna, e non per la Storia della Chiesa o del cristianesimo, operava una scelta di campo rispetto ad una storiografia ancora pienamente apologetica e confessionale, in vista di garantirsi una laicità non soltanto rispetto alle ideologie, ma anche rispetto alla sua stessa appartenenza religiosa. La seconda via che Prodi rigetta è quella che vede nascere il moderno nel tardo Settecento, identificato con una secolarizzazione a senso unico, storia della lotta dello stato contro la Chiesa e della ragione contro la religione. . Con grande acutezza Paolo Prodi ci ha insegnato che esiste una paradossale coincidenza tra i sostenitori della modernità come frutto del trionfo della ragione sulla tradizione giudaico-cristiana e i nemici della modernità che a quella tradizione fanno riferimento: cambia, ha osservato, soltanto il giudizio finale di positività o negatività del “moderno, ma la definizione del processo storico della modernità sembra identico, sia per i pensatori laici che per quelli confessionali.

Al cuore dell’Occidente e addirittura iscritto nel suo codice genetico ci sarebbe invece per Paolo Prodi un originario dualismo: tra la Chiesa e lo Stato, tra il potere sacro e quello profano, tra la Ragione e la Religione. In questa dialettica, piuttosto che nella rivendicazione di discutibili radici cristiane dell’Europa starebbe il contributo fondamentale del Cristianesimo: un ruolo importante sul paino del pensiero e sul piano delle istituzioni, per la costruzione delle moderne idee e realtà di libertà, diritti umani e democrazia. A differenza di altre religioni, e approfondendo quanto era implicito nell’alleanza di Jahvé con il popolo ebraico, il Cristianesimo avrebbe infatti impostato una divisione normativa basata su il “dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” e su “Il mio regno non è di questo mondo”, una distinzione che, garantendo la pur conflittuale coesistenza di sfera statale e sfera religiosa, avrebbe consentito la separazione del foro interno e di quello esterno, di potere civile e potere religioso: la divisione tra la sfera politica e quella religiosa è frutto di una tensione, di una lotta continua per il monopolio del potere; questa tensione tuttavia è sempre stata però congiunta a un processo di osmosi, nel quale la tendenza della Chiesa a impadronirsi del potere politico e la tendenza della politica a sacralizzarsi costituiscono un continuum in cui nessuna delle due forze è riuscita a prevalere, ma nel quale ciascun protagonista ha assorbito almeno in parte i contenuti dell’altro. Si è trattato di un processo solo europeo, solo occidentale, solo moderno, capace di impedire la fusione completa di potere e di sacro, e dunque riassumibile nella incapacità della Chiesa di farsi Stato malgrado le ricorrenti spinte in questo senso e nell’impossibilità dello Stato, malgrado i tentativi reiterati in questo senso, di sacralizzarsi completamente. E’ stata prodigiosa la capacità di Paolo Prodi di far discendere da questa tesi i caratteri salienti dell’evoluzione intera della civiltà occidentale, come espressione di questo dualismo fondamentale. Mi limito a ricordare il poderoso trittico, dato alla luce a partire dal 1992 rappresentato dai volumi Il sacramento del potere, Una storia della giustizia, Settimo non rubare. Il primo è un’innovativa storia del moderno costituzionalismo occidentale, che Prodi vede affermarsi nel momento in cui la Chiesa latina lottando contro l’Impero e la feudalità, per una sorta di eterogenesi dei fini, libera uno spazio occupato da nuove associazioni orizzontali: le repubbliche cittadine, le università, le corporazioni. Il giuramento invoca Dio come garante del patto, ma senza lasciare alla Chiesa alcun monopolio sul suo utilizzo. E’ nel controllo del giuramento che si snoda da allora in poi la dialettica tra la Chiesa e lo Stato fino ad arrivare alle religioni politiche del Novecento, che sembrano chiudere definitivamente questo percorso millenario con l’imposizione di una confessionalizzazione laica. Il secondo, Una storia della giustizia, è tutto intrecciato sul fecondo dinamismo tra peccato e reato, tra diritto e coscienza, in un affresco che prende le mosse dal Concilio Laterano IV del 1215 e giunge fino ai nostri giorni, nei quali l’affievolirsi del “foro interno” a tutto vantaggio delle norme giuridiche conduce a uno statalismo legicentrico, che nella pervasività e nell’autoreferenzialità finisce per suicidarsi per bulimia. Nell’ultimo Settimo non rubare, Paolo Prodi parla di un terzo forum, vale a dire il luogo in cui si stimano e si scambiano i beni materiali e individua, di nuovo, nella rivoluzione gregoriana un punto di svolta che ha permesso la nascita delle città libere in cui i mercanti possono godere di una ricchezza diversa da quella derivata dal possesso della terra, che resta il fondamento del potere nobiliare. In questo processo la Chiesa occidentale, dopo la formazione del diritto canonico, ha contribuito a valorizzare gli scambi economici inserendoli in una cornice religiosa che stabiliva il buono e il cattivo uso della ricchezza in nome del bene comune della città cristiana. Specie con questo ultimo contributo Paolo Prodi sembra rivelarci chi fosse uno dei suoi interlocutori privilegiati: l’etica di origine religiosa che avrebbe permesso la nascita dell’economia di mercato non sarebbe quella elaborata dal puritanesimo protestante, secondo le note tesi espresse da Max Weber in L’etica protestante e la nascita del capitalismo ma quella sorta nelle città comunali grazie alla concorrenza tra la Chiesa latina e il potere secolare nello stabilire che cosa è un peccato e che cosa è un reato. Ma su un punto Prodi è d’accordo con Weber: ciò che caratterizza la civiltà occidentale è l’Entzauberung der Welt, il disincanto del mondo, che Prodi traduce come de-magificazione ( una de-magificazione che però implica non l’espulsione del sacro, ma la sua presenza come “altro” rispetto al mondo e al potere), e tutto ciò è avvenuto “solo in Occidente” (nur im Okzident), per riprendere un ritornello insistente di alcune pagine di Weber che aprono la sua Sociologia delle religioni. Nelle grandi civiltà che hanno preceduto quella europea è mancato il processo complessivo di razionalizzazione, la coscienza progettuale nei confronti della natura e della società, tutti fattori che Paolo Prodi vedeva confermati nel processo attuale di globalizzazione.

Difficile tuttavia distinguere lo storico dall’organizzatore di cultura, dall’educatore, dal costruttore di contesti aperti agli studiosi e di reti di dialogo con altre culture nazionali più robuste e attrezzate della nostra. Gli esiti di questo lavoro e la misura della profondità del rapporto che coi suoi libri e la sua opera Paolo Prodi ha costruito nella comunità sovranazionale della cultura storica mondiale è ancora tutto da ricostruire, ma sarebbe uno scavo che sicuramente approderebbe a risultati sorprendenti. La comunità scientifica internazionale e la cultura non solo italiana hanno conosciuto e goduto anche dei frutti di un impegno civile nella vita delle istituzioni che hanno assunto un loro posto importante nella geografia del mondo degli studi e specialmente della ricerca storica. Parlo di iniziative e di realtà che sarebbe lungo enumerare. Ricordo solo le maggiori: l’impianto insieme a Giuseppe Alberigo e sotto l’impulso di Giuseppe Dossetti del Centro di Documentazione di Bologna (oggi Fondazione Giovanni XXIII per le scienze religiose); la creazione dell’Istituto Storico italo-germanico in Trento con la sua grande biblioteca e le molte, periodiche iniziative di incontri tematici di esponenti delle due storiografie (devo molto ai seminari di Trento, che hanno segnato in maniera indelebile la mia formazione); 3) l’Ufficio studi e programmazione del Ministero della Pubblica istruzione da lui creato, ma anche la presidenza della Giunta centrale per gli studi storici. Tante altre furono le iniziative che bisognerebbe ricordare. Mi preme però citare quella, fuori d’Italia, che lo vide collaborare in Messico col Cidoc di don Ivan Illich di Cuernavaca. Sono gli anni dell’evoluzione mistica del gruppo dossettiano: come ha ricordato una volta Adriano Prosperi, se Giuseppe Dossetti emigrava a Oriente verso Gerusalemme cercando di attuare l’utopia del cristianesimo primitivo, Paolo Prodi si rivolgeva ancora una volta verso Occidente, guardando al futuro invece che al passato e, per usare un lemma antinomico secondo lui a quello di utopia, scegliendo la profezia. D’altra parte è ricorrente nei suoi scritti la definizione della Chiesa come “profezia istituzionalizzata”, attinta a una pagina di Franz Rosenzweig che aveva molto cara. Personalmente ritengo che se Paolo è stato un grande intellettuale consapevole della propria funzione civile e convinto di poterla esercitare, era perché rifiutava la concezione del cristiano come un perpetuo minorenne che non può essere titolare del carisma profetico. Parafrasando un passo di Martin Buber, anche Paolo era, come i profeti biblici, un uomo dello zwischen, il cui compito è quello di richiamare i governanti, i detentori del potere politico al limite del potere stesso. Solo che, al contrario dei profeti d’Israele, annunciava ciò che sarebbe potuto succedere, non nell’eventualità che i governanti non avessero rispettato la giustizia divina, ma nel caso essi avessero dimenticato la lezione cogente della storia. Era in un certo senso il guardiano vigile di quel dualismo costitutivo dell’Occidente (che lui stesso ci ha aiutato a decifrare) tra il potere politico e il potere sacro: ai miei occhi, come Franz Rosenzweig godeva del privilegio divino di essere testimone nel mondo della duplice rivelazione, quella nuova e quell’antica.
 

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