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Nel carcere della Dozza c'è una delle migliori industrie del packaging del territorio

In dodici anni, l'azienda Fare impresa in Dozza ha dato lavoro a oltre settanta detenuti: "Tra questi, la percentuale di chi ha continuato a reiterare nel crimine è circa il 10%, a fronte di una media che supera il 60%"

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Lavorare nobilita l’uomo? Forse. Sicuramente nobilita i detenuti della Dozza, o almeno questo è ciò che emerge dai dati di Fare impresa in Dozza (Fid), un’azienda che in dodici anni di attività ha dato lavoro a oltre settanta detenuti. Tra questi, la percentuale di chi ha continuato a reiterare nel crimine è di circa il 10%, a fronte di una media che supera abbondantemente il 60%.

Lo stabilimento all’interno del carcere

Ma cosa è Fid? Fare impresa in Dozza è un’azienda nata con l’appoggio delle aziende Gd, Ima e Marchesini Group, e la sua particolarità è che il suo stabilimento di produzione si trova all’interno del carcere della Dozza. Nel pomeriggio di lunedì 26 febbraio, il suo amministratore, Gian Guido Naldi, e il comandante della penitenziaria di Bologna, Roberto Di Caterino, ne hanno parlato in un incontro promosso dall’associazione Palco, una realtà che si occupa di promuovere iniziative culturali e politiche sul ruolo e sul valore del lavoro, facendo dialogare professionisti che provengono da ambiti differenti come, in questo caso, quello carcerario.

“Facciamo lavorazioni meccaniche, parti di macchine automatiche, ma la vera peculiarità è che il nostro stabilimento è all’interno del carcere della Dozza. Oltre il capofficina, che viene dall’esterno, occupiamo quindici, sedici dipendenti, tutti detenuti” ha raccontato Naldi a margine dell’evento. “L’idea è nata con la volontà di fare qualcosa di utile per il reinserimento sociale, pensando che il lavoro sia uno strumento fondamentale per reimmettersi nel circuito diciamo ‘civile’ una volta usciti dal carcere. Ormai siamo un’eccellenza nel settore del packaging. In tutto ciò è stato decisivo avere con noi una decina di operai specializzati in pensione: ognuno di loro viene un paio di giorni alla settimana e di fatto insegnano ai ragazzi a lavorare. Questo consente di avere una qualità adeguata, nonostante ogni due anni partiamo da zero con persone nuove".

Tutor e detenuti, culture a confronto

"Il turnover è di questa dimensione qui e senza i tutor sarebbe impossibile avere la qualità che abbiamo. - rimarca Naldi  -Ma il lavoro svolto dai tutor non è solo professionale: sono come padri e figli. Si tratta di esperienze a confronto: da una parte quelle di operai che hanno costruito la propria dignità sul lavoro; dall’altra, la cultura della scorciatoia, di chi pensava che fosse meglio rubare o spacciare. Il confronto tra queste due culture è fondamentale”.

Quale futuro per i lavoratori dopo il carcere

E una volta usciti? “Innanzitutto, li aiutiamo a trovare lavoro – continua Naldi –. Non tutti però accettano di seguire il nostro percorso. Se sono stranieri, spesso preferiscono tornare nel loro paese di origine. In questi dodici anni abbiamo fatto lavorare una settantina di persone, e circa quindici sono ancora lì. Quindi ne sono usciti circa cinquantacinque: tra questi, la media di chi è tornare in carcere è circa del 10%. Solitamente, l’indice di reiterazione è oltre il 60%. Questo dimostra che il lavoro è fondamentale, ma purtroppo non basta: lo stigma nei confronti dei detenuti è talmente forte che ci sono tanti altri problemi, come ad esempio quello di trovare una casa. Alcuni proviamo a risolverli noi, ma non è per nulla facile”.

Quello della Fid è un esempio che ha colpito anche chi, della Dozza, è responsabile: “All’inizio non ci fidavamo, e pensavamo che sarebbe stato l’ennesimo progetto che non sarebbe mai nato. Invece, dopo anni di lavoro, posso dire che è un’esperienza incredibile anche per noi” ha detto Di Caterino. “Lavorare in carcere è complesso. La prigione vista spesso come una riserva indiana, dove i detenuti fanno le collanine e cose simili. Il lavoro meramente assistenzialista però serve a poco. Al lavoro come quello della Fid soggiace invece l’idea di un percorso, e cioè portare le persone a lavorare. In questo io sento davvero l’importanza del mio lavoro. Il carcere accoglie le persone che attraversano il percorso dal crimine alla detenzione, ma poi tornano in società: che riescano a tornarci migliori è il nostro auspicio e in questo il lavoro è indispensabile. Questo lo può testimoniare il lavoro stesso della Fid” conclude Di Caterino.

Come è nato il progetto

Il progetto, nato nel 2012 per iniziativa di Gd, Ima e Marchesini Group – alle quali, nel 2019, si è aggiunta anche Faac –, ha dunque sempre avuto l'obiettivo di sviluppare competenze tecniche e relazionali per i detenuti che intraprendono il percorso, configurando un modello di reintegrazione socio-lavorativa originale e potenzialmente riproducibile in altri contesti penitenziari.

I contenuti tecnici impartiti, a cura della Fondazione Aldini Valeriani e di tutor esperti nel settore del packaging, sono finalizzati all’acquisizione delle abilità professionali necessarie per l’assemblaggio di pezzi meccanici e la costruzione di semplici componenti. 

I “soci fondatori” Maurizio Marchesini, Isabella Seràgnoli e Alberto Vacchi hanno voluto realizzare il progetto per le "spiccate finalità sociali e il loro senso di responsabilità nei confronti del territorio su cui operano", con l’auspicio che numerose altre aziende possano in futuro accrescere le fila dei sostenitori Fid, come avvenuto per il Gruppo Faac.

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